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Da anni in Italia si registra una situazione politica ed elettorale in cui nelle grandi città ciò che è comunemente noto come centrodestra arranca e ha difficoltà a vincere. Per quanto riguarda invece il contesto provinciale e periferico, sono sinistra e forze progressiste a incontrare maggiori resistenze alla diffusione della propria visione del mondo. È un dato di fatto oggettivamente chiaro, supportato dalle cifre elettorali e da un ampio lasso di tempo in cui questo fenomeno si è ripetutamente verificato. Per questo motivo, non può di certo bastare giustificare le diverse sconfitte addossando la responsabilità solo ed esclusivamente ai diversi candidati, sebbene negli ultimi tempi il centrodestra – talvolta colpevolmente – abbia anche provato a sperimentare candidature extra-politiche che hanno subìto sonore sconfitte e sono rimasti progetti politici fini a sé stessi. Basterebbe citare le candidature di Bernardo e Parisi a Milano, senza dimenticare Michetti a Roma e Maresca a Napoli. Di esempi ve ne sarebbero anche altri, ma questo non vuole essere un processo ai singoli, bensì un’esemplificazione di un metodo che ha dimostrato di essere scarsamente funzionale.
Ciò detto, il punto su cui riflettere è quello maggiormente politico-sociale ovvero la situazione che emerge a seguito dell’analisi del voto, con un risultato disomogeneo tra grandi città e contesto extra-urbano e provinciale. Stando al contesto della Sardegna, anche alle ultime regionali il risultato si è polarizzato, con un centrodestra forte fuori dalle città metropolitane e un campo largo fragile nelle zone interne. Il punto di partenza per una riflessione che possa portare a un cambio di rotta è, prima di tutto, partire dai numeri. Le città metropolitane di Cagliari e Sassari hanno riportato un risultato parimenti negativo per il centrodestra, premiando il candidato presidente del Campo largo. È un dato di fatto. Per questo il ragionamento deve essere complessivo, strutturato e propositivo, senza limitare l’attenzione solo ed esclusivamente a un fattore locale – ovvero quello di Cagliari città – che avrebbe condizionato in toto il risultato sardo. Precisiamo: l’esito elettorale del capoluogo della Sardegna è uno degli elementi su cui porre dovuta attenzione, ma non l’unico. Anche perché in tutti i maggiori centri al voto nell’ultima tornata delle amministrative, ovvero Cagliari, Sassari e Alghero si è registrata una pesante debacle del centrodestra. Questo trend negativo, come detto in premessa, ha carattere nazionale. Pertanto, è necessario badare non solo agli aspetti della politica, della strategia e dei rapporti di forza (politics), ma anche alle azioni politiche reali e concrete intese come risposte a un problema e offerta propositiva per un contesto territoriale (policy). Questo implica molta più fatica e richiede una visione sul lungo periodo, con risultati probabilmente non immediati.
Tuttavia è irrimandabile comprendere quali siano i sentimenti e gli interessi delle grandi città che il centrodestra non riesce a intercettare, rispetto invece a una emblematica capillarità nei Comuni medio-piccoli. Rimane una difficoltà di fondo a scardinare la connessione profonda che si è instaurata tra le forze progressiste genericamente intese come di sinistra e determinate frange socio-culturali. Esiste la tendenza di una determinata borghesia medio-alta, che un tempo si sarebbe perlopiù definita come liberale, a sposare battaglie e candidati idealmente affini alla sinistra radicale, financo a giungere al cosiddetto wokismo, ovvero la sensibilità, reale o interessata, alle ingiustizie politiche e sociali, pur con un dogmatismo fine a sé stesso scollegato dalla quotidianità. Questa estremizzazione, però, non può più bastare al centrodestra come giustificazione o argomento di confronto politico, sebbene realistico e oggettivamente fondato, così come risulterebbe infruttuoso limitare il tutto a una saldatura politica tra radical chic.
È un tema, ma non è l’unico. C’è anche qualcosa di sommerso – una sorta di maggioranza silenziosa delle grandi città – a cui non basta più un approccio superficiale su determinati temi, come talvolta è accaduto. L’approccio ideologico che l’Europa e determinate frange elitarie italiane hanno, per esempio sul Green Deal, nulla c’entrano con temi legati invece alla sostenibilità ambientale, alla mobilità intelligente, alla pianificazione strategica e urbanistica del territorio e, tra le altre cose, al benessere animale. Occuparsi da destra di questi temi viene talvolta visto come l’assoggettamento a un sistema radicale che si occupa sì di natura, automobili, animali e stili di vita, ma da un punto di vista totalmente differente. Pur di non apparire quindi influenzati dalla sinistra su determinati argomenti, si predilige il non affrontarli. Eppure i grandi filoni di pensiero del centrodestra – principalmente quindi il popolarismo e il conservatorismo – hanno visioni integrali e puntuali che differenziano in maniera netta una determinata visione del mondo rispetto a un’altra. Certamente, ed è questo il punto, in un contesto urbano e metropolitano incidono, per esempio, i temi degli spazi condivisi, della natura, delle forme alternative di mobilità e viabilità. Se il centrodestra non ha chiaro come disciplinare una propria proposta – o ne ha timore – non potrà mai essere attrattivo nei confronti di soggetti portatori di interessi o anche di semplici fruitori, così come di nuove generazioni che risultano essere particolarmente sensibili a certi temi, e non è corretto, né tantoméno elettoralmente funzionale, eliminare o sottodimensionare questi temi nell’agenda politica.
Per questi motivi, la cosa più logica dal punto di vista politico è rilanciare da destra non solo la propria visione del mondo, ma anche chiarire quali siano le idee di quella variegata piattaforma popolare, autonomista e conservatrice riguardanti città, contesti urbani e metropolitani. È chiaro che non ci si possa più accontentare delle vittorie nelle aree rurali, interne e nelle periferie. Essendo la destra di fatto interclassista, non si può pensare che quelle fasce – per lo più borghesi – che vivono le città, non possano e non debbano essere interlocutori e potenziali sostenitori. Serve una predisposizione all’ascolto anche su temi che negli ultimi anni hanno visto i rappresentanti di centrodestra diffidenti se non particolarmente distaccati. Si può fare adesso, con testa, capacità di analisi e di confronto. Senza pensare che ci sia sempre qualcuno a livello nazionale che possa condizionare favorevolmente l’esito elettorale. Oltre che essere miope e ingiusto, è qualcosa che non reggerà sul lungo periodo. Inoltre, la politica deve condurre i territori non certo ad essere omogenei, ma perlomeno non confliggenti da un punto di vista sia sociale sia culturale. Interessi, ansie e preoccupazioni sono talvolta diverse da una zona universitaria e da una rurale, questo è chiaro. Occorre però tenere in conto tutti questi aspetti e non avere più un atteggiamento superficiale verso alcuni temi rispetto ad altri.
Serve un’idea complessiva, integrale ed elaborata, che sia da una parte sovrapponibile su tutte le città e dall’altra specifica per quanto concerne conformazioni, aspirazioni e predisposizioni dei diversi contesti urbani. Insomma, un manifesto politico programmatico che non rimanga sulla carta e non venga dimenticato il giorno dopo, ma abbia una prospettiva di lungo periodo. Non è semplice, ma è giusto. Ed è da fare ora.