Torna in libreria il romanzo “L’ultima vacanza” di Fausto Gianfranceschi

Pubblichiamo l'introduzione di Gianfranco de Turris al libro riedito da L’Arco e la Corte di Bari

L’ultima vacanza di Fausto Gianfranceschi per l’Arco e la corte

Se è arduo per l’autore rileggersi un proprio romanzo dopo più di trent’anni, figuriamoci per il suo antico recensore… Le impressioni del 1972, ci si chiede, saranno le stesse del 2004? Quel che si pensava non ancora trentenni le si penserà ugualmente sessantenni? Il mondo intorno a noi è (ovviamente) cambiato, ma noi – i nostri gusti, le nostre impressioni, la nostra sensibilità – siamo gli stessi di allora oppure no, e in che senso? Sicchè quel che provammo allora leggendo L’ultima vacanza, le corde che smosse, saranno uguali o diverse?

Intanto, perché si ripropone questo romanzo in una collana che ospita “generi” disparati accomunati dal solo fatto di essere controcorrente rispetto al loro tempo ed ai suoi luoghi comuni di ogni tipo, come questa? L’idea è nata per due sollecitazioni: la prima è che la validità del libro mi è stata ricordata da Mario Bernardi Guardi che ne ha parlato nel novembre 2004 nella rubrica “Il libro ritrovato” di cui si occupa per la trasmissione radiofonica L’Argonauta; la seconda è che lo stesso Fausto Gianfranceschi, quando glielo accennai, mi disse che negli anni Settanta il romanzo, oltre ad avere un buon successo (due edizioni ed il Premio Fregene), venne salutato dai ragazzi di destra finalmente come un’opera di narrativa del tutto nuova rispetto a quel che correntemente si leggeva, una specie di boccata d’aria in un mondo letterario asfittico e conformista, un punto di vista originale e critico nei confronti dell’andazzo generale, uno stile evocativo e suggestivo rispetto all’incomprensibilità delle pseudo-avanguardie e alla cruda piattezza del realismo a sfondo sociale: insomma, un qualcosa che finalmente sentivano “loro”.

Personalmente, lo dico in tutta sincerità, non ne avevo un ricordo ottimale: mi era piaciuto di più il romanzo di esordio di Fausto, Il segno sulla mano (Ceschina, 1968), per un motivo diciamo psicologico: il carattere del personaggio principale, qui attivamente polemico nei confronti dell’ambiguo deuteragonista e del mondo che questi rappresentava, un mondo in bilico fra conformismo e progressismo, mentre Eugenio, il protagonista de L’ultima vacanza, mi era sembrato remissivo se non passivo nei confronti della situazione che alla fine lo travolge.

Riletto il romanzo devo ammettere che si trattava di un’impressione esagerata, dovuta evidentemente ad una mentalità “attivistica” tipicamente giovanile, che non si rendeva conto delle molteplici sfumature caratteriali del personaggio lungamente tratteggiato da Gianfranceschi. Ora, pur con debolezze, ma anche con eroismi, lo vedo come un perfetto simbolo dell’uomo del Novecento che, solo, è testimone del disfacimento del suo mondo privato (e forse dell’intera società) a causa di un evento che non può assolutamente impedire. Credo che la frase del libro che meglio chiarisce il concetto sia questa: “Egli è l’unico elemento estraneo nella spessa rete degli invasori, e continua a vivere e a muoversi nascostamente. Un occhio che scruta inosservato non ha la potenza di modificare lo scenario, ma gli esseri colti dallo sguardo imperturbabile sono ugualmente indifesi e feriti nella loro inconsapevolezza”. Insomma, un testimone oggettivo di quanto accade, delle trasformazioni del suo tempo, ché altro non può fare di fronte allo strapotere degli eventi, fermo nelle sue idee anche se una volta è sul punto di cedere, non condizionato dalla marea maggioritaria anche quando questa travolge le persone a lui più vicine. Una posizione simboleggiata anche da questo punto di vista: “Che cosa lo paralizza, gli impedisce di agire come se si trovasse al centro di un incubo?… l’orgoglio di resistere nel ventre della bestia senza essere digerito. Non è rassegnazione, egli accetta la sfida, rinuncia alla fuga perché ora comincia a vivere, la sfida gli elargisce un dono inatteso: misurarsi col futuro”. Al centro del caos restando intangibili; il che è di per se stesso una “sfida” agli eventi, al futuro.

L’ultima vacanza è, come scrive l’autore, un “rispecchiamento” sotto forma narrativa e simbolica degli eventi di quegli anni a cavallo del 1970. Tutto si rifrange, distorcendosi però, in uno specchio scuro, per usare un famoso riferimento a Sheridan Le Fanu: quel che avveniva non ci avrebbe aperto tempi migliori, come pur continuano a dire i “reduci del Sessantotto”, siano essi sinistri o destri, ma ci ha introdotti in tempi peggiori: nella politica, nel costume, nei rapporti personali, nella cultura, nel vivere civile, pervertendo molte coscienze e facendoci piombare negli anni del terrorismo e dello stravolgimento di molte regole cui eravamo abituati.

Quando Gianfranceschi pubblicò il suo romanzo tutto questo, pur se era già iniziato, non era ancora evidentissimo a tutti, non aveva assunto una piega tragica e praticamente irreversibile, aveva anzi i suoi esaltatori e i giustificazionisti di professione, ma chi non aveva i paraocchi ideologici, ma semplicemente uno sguardo realistico (l’ “occhio che scruta inosservato”), ne percepiva le avvisaglie che si celavano dietro la falsa maschera buonista, democratica e progressista di quei “ragazzi dei fiori” che predicavano l’amore per la nautura e per il prossimo, ma avevano nell’animo un’intransigenza che oggi definiremmo fondamentalista o integralista verso chi non la pensava come loro, e che non faceva presagire nulla di buono e di bello. E’ per questo che L’ultima vacanza ha oggi un sapore quasi profetico. Volevano fare del bene, volevano cambiare la società in meglio, dispensavano “amore” a carrettate, ma come tutti gli utopisti erano ferocemente implacabili nei confronti di chi non accettava la loro “migliore delle società possibili”. E come per ogni pura utopia le conclusioni sono state ben diverse dalle premesse.

L’autore situa l’azione nel 1969, nell’ “estate della Luna”, quando l’astronave Apollo depositò la navetta Aquila sul nostro satellite e l’uomo per la prima volta da sempre calpestò un suolo alieno, non terrestre. Il trionfo della tecnologia, ma anche, contemporaneamente, del mondo che aveva prodotto questo stupefacente successo, l’inizio di un processo di imbarbarimento di cui oggi vediamo gli ultimi esiti.

Cultore di Dino Buzzati cui ha dedicato la prima monografia italiana (Borla, 1967), difensore della sua narrativa quando il grande scrittore era tenuto da parte, poco considerato, quasi disprezzato dai progressisti, dalle pseudo-avanguardie, dagli “impegnati”, nonostante i tributi esteriori, Gianfranceschi ha scritto un romanzo “buzzatiano”, più che “kafkiano”: per la sua atmosfera misteriosa e rarefatta, per i riferimenti simbolici, soprattutto per quel senso opprimente di qualcosa di sconosciuto che è successo o che sta succedendo, ma di cui non esiste una percezione esatta, una cognizione precisa: non possono non venire in mente le atmosfere angosciose e opprimenti di Paura alla Scala, Qualcosa era successo, Eppure battono alla porta, Non aspettavano altro, Era proibito, solo per citare i più belli dopo il famosissimo Il deserto dei tartari.

Le paure inespresse di Dino Buzzati, il clima di sospensione, di attesa di una catastrofe (personale e generale) che forse verrà, il sottile fremito o il groppo alla gola per quel che di sconosciuto può trovarsi dietro l’angolo (metaforico), il senso del crollo imminente di una certa società (quella “borghese”) che non fa nulla per difendersi, anzi alleva in sé i semi della distruzione, tutto aveva per il grande scrittore di Belluno sia un aspetto psicologico e metafisico, sia un aspetto politico e sociale: non era difficile capirlo. Ed infatti lo capivano benissimo i suoi critici degli anni Sessanta e Settanta  (lo scrittore morì il 28 gennaio 1972 poco dopo aver compiuto 65 anni) che lo avevano svalutato in tal modo emarginandolo, preferendo questa mossa indiretta ma efficae più che attaccarlo frontalmente data la sua notorietà: Fausto è stato uno dei pochi che non solo lo difese, ma che ne mise regolarmente in evidenza l’originalità letteraria, la linearità stilistica, l’anticonformismo morale e ideale. Oggi, tutti coloro che si occupano di Dino Biuzzati, benché siano trascorsi ben più di trent’anni da quel clima infido e fazioso, tendono a tralasciarne e a non approfondirne le idee e la “visione del mondo”, limitandosi a parlare delle sue qualità di scrittore, come se si potessero dividere e separare i due aspetti. Questo per dire che ne L’ultima vacanza Gianfranceschi segue la lezione buzzatiana anche per quanto riguarda l’aspetto “sociale” e “ideale” delle angoscie che sovrastono la vita del protagonista e delle premonizioni di cui si fa testimone.

E’ ovvio che il campeggio degli “stranieri” intorno alla villa in cima alla collina su un’isola nel Mar Tirreno (con ogni probabilità l’Elba), una specie di “bestia enorme che rumina, digerisce e prospera incessantemente”, è simbolico dell’assedio che una cultura, un modo di vivere estraneo attuava all’inizio degli anni Settanta nei confronti di una cultura ed un modo di vivere “tradizionali” che avevano funzionato senza troppi problemi sino a quel momento. E’ chiaro che il graduale allontanamento dell’adolescente Riccardo dalla famiglia ed il suo assumere la mentalità dei “campeggiatori”, allude a quanto avvenne e stava avvenendo all’epoca all’interno di molte famiglie reali. E’ evidente che la trasformazione del variegato panorama della tendopoli multicolore, che da fenomeno folkloristico pian piano assume la consistenza di una compatta macchia monocroma che stringe sempre più da presso la villetta, e il fatto che poco alla volta i suoi occupanti si vestano tutti o quasi prima con “cappucci e mantelli di nylon che danno le lucide sembianze di insetti divoratori” e poi, quasi per una metamorfosi completa, con con nere tute di gomma da sub, alluda alla uniformizzazione di una pseudo-ribellione che nega la diversità e odia chi non sta dalla sua parte: dalla maschera spensierata degli hippy al reale volto violento e intransigente dei “ribelli”, che si illudevano di essere “diversi”, dal naturismo dei “ragazzi dei fiori” alle spranghe e alla ferocia dei contestatori che diventeranno terroristi. E’ altrettanto chiaro che il malefico gobbo che domina e governa la congrega è il simbolo deforme degli intellettuali-apprendisti stregoni che manipolavano e strumentalizzavano il gregge contestativo: lo provano le sue teorie e le sue espressioni nel dialogo con Eugenio. Cosa dice quell’ “uomo sbilenco nell’armatura di gomma” che parla “con voce lenta e metallica”? Ammonisce che se rivogliono il figlio “cercate di somigliargli”, e “non sperate che il passato ritorni”; promette: “Distruggeremo le parole che nominando le cose le rendono cose”; contesta che “la mania di isolarsi è un’offesa alla libertà e all’amore”; accusa che la villa è “una intollerabile provoczione”. Non erano forse quelle le parole d’ordine di una demenziale demagogia che pur negli anni Settanta, quelli veri, quelli reali, affascinarono tanti ragazzi e non pochi intellettuali che pontificavano su grandi quotidiani e grandi settimanali gettando benzina sul fuoco? Insomma, il simbolo vivente di un tipico “cattivo maestro” deforme esteriormente e interiormente che guida delle “particelle anonime” e  fa sì che procedano  ad un “ritmo da termitaio”

Eugenio cerca di resistere, anche se inizialmente sembra attratto dall’esotismo e dalla spontaneità delle presenze femminili nel campeggio. Isolato dal mondo, senza luce e telefono, impossibilitato ad abbandonare l’isola, rifiutando “una guerra che non comprende” ma con la sensazione che qualcosa di terribile e angosciante possa essere accaduto anche altrove (“l’oscuro sospetto che il mondo stia finendo”), assiste impotente al “continuo sgretolarsi della normalità”; però quando il figlio scompare fagocitato dalla tendopoli cerca di rintracciarlo, ma invano; sempre più assediato tenta con la sua barca a vela di trovare una via d’uscita, ma invano anche qui; privato dei generi essenziali per sopravvivere, cerca di organizzarsi con i suoi familiari, ma a tutto c’è un limite. Scompare la figlia più piccola, Martina, anch’essa rapita dai sub, che, affascinati dalla sua ingenua e candida purezza, la considerano come una specie di divinità bambina.

Il finale del romanzo lascia aperta la possibilità di una salvazione, anche se a lunga scadenza. Rifugiatosi a nuoto con la moglie su un isolotto di fronte all’isola più grande, Eugenio vede la consacrazione della bimbetta da parte degli “sttanieri” durante un rito notturno. La piccola può essere una “promessa” per un futuro diverso, perché  proprio in quell’ambiente alieno potrebbe germogliare qualcosa di diverso. Ad esempio, Martina potrebbe essere “colei che nominerà la cose”.

La singolare definizione è fondamentale: il gobbo voleva programmaticamente “distruggere le parole che nominando le cose le rendono cose”, cioè fare esattamente il contrario dell’azione tradizionale (e magica) e così destrutturare il mondo reale, modificare il senso delle parole stesse e delle “cose” cui esse si riferiscono, la percezione che attraverso le parole si ha delle cose. Come precisamente è stato fatto dagli anni Settanta in poi, per cui certe parole e certe cose non hanno più il significato originario ma quello, nuovo e negativo, che ad esse è stato assegnato: si pensi solo a “potere”, “autorità”, “Stato”, “gerarchia”, “meritocrazia” ad esempio. Martina invece, nella speranza di Eugenio, “nominerà le cose” di nuovo, facendo loro riassumere il senso primordiale, giusto, esatto.

Un messaggio di speranza, dunque, che ha qualche possibilità di attuarsi, a meno che il clima generale non si sia ormai talmente deegradato che certi stravolgiomenti logici e morali non siano diventati tanto comuni e diffusi da far presa su tutti e tali da non far più intendere dove sia la “normalità” e dove l’ “anormalità”, dove la via giusta e dove la via sbagliata. Insomma, a meno che anche chi oggi dovrebbe essere preposto in teoria a “rettificare” sia invece così condizionato dal conformismo e dall’abitudine mentale da considerare come “nemici” proprio coloro i quali trent’anni prima si opponevano al falso anticonformismo dei “ragazzi dei fiori” e non hanno poi cambiato idea!

   L’ultima vacanza, riletto (o letto per la prima volta) oggi mi rammenta  tutto questo e continua ancora ad ammonirci per il prossimo futuro.

Gianfranco de Turris

Gianfranco de Turris su Barbadillo.it

Exit mobile version