La metamorfosi del calcio in un’Europa sempre uguale tra soldi, politica e tribù

L'analisi di Giuseppe Del Ninno alla vigilia della finale della manifestazione continentale

Il mondo del calcio e le sue storie su Barbadillo

E così, si avvia a conclusione questo disgraziato – per noi – campionato europeo di calcio. Mentre scrivo, conosciamo il nome di una delle finaliste: la Spagna; l’altra verrà fuori stasera dall’incontro Olanda-Inghilterra. Questi tornei, per chi come me ha i “vizietti” del calcio e della storia (per non dire della politica), suggeriscono sempre considerazioni di ordine vario, aldilà del mero fatto sportivo.

 

Malgrado il passare di secoli, affiorano sempre, in questi incontri, echi di antiche guerre, di alleanze messe a rischio, di feconde eppure ardue diversità fra popoli, irruzione di nuovi spiriti animali, squarci di futuro. In fondo, è questo il motivo profondo di questo che da tempo non è più il gioco di ventidue (e più!) ragazzi in mutande in uno stadio.

 

Così, i nomi delle Nazionali superstiti evocano conflitti religiosi del nostro passato di europei: da Giovanna d’Arco alla Notte di San Bartolomeo, dalle lotte degli scismatici anglicani contro i “papisti” al Calvinismo delle Fiandre contro il predominio spagnolo, fino alla memoria di quello che fu l’odierna Austria contro quella Turchia erede dell’impero Ottomano, e via enumerando. Certo, il calcio come metafora confortante e incruenta della guerra, metafora che proprio il temuto conflitto armato ha esorcizzato e, nei diffusi auspici avrebbe tenuto lontano, oggi dimostra di funzionare di meno: appena spento il clangore di armi e di bombe degli anni 90 del 900 nei Balcani, nuove folgori e distruzioni belliche sconvolgono l’Europa a due ore di volo dalle nostre città e influiscono sullo sport – meno sul calcio – rimuovendo bandiere e mettendo al bando atleti; a dire il vero, specie nel calcio, fra i mutamenti ne annotiamo due, di ben diverso peso e di segno contrapposto: il prevalere soffocante del Dio Denaro e il ritorno dello spirito tribale nelle tifoserie, manifestato da volti dipinti, lancio di bengala, canti bellicosi, intolleranza a volte violenta verso il “nemico”.

 

Quello che Churchill diceva degli italiani – vanno in guerra come a una partita di calcio e alla partita di calcio come andassero in guerra – almeno per la seconda parte di questa frase vale un po’ per tutti gli “ultrà”. Quanto alla finanziarizzazione del calcio, essa comporta, fra l’altro: l’emersione e il consolidamento della figura dei Procuratori, l’elaborazione di contratti sempre più complicati e, dunque, di trattative sempre più lunghe, la moltiplicazione delle partite – a scopo di lucro – e la svalutazione dei ritiri precampionato e degli allenamenti infrasettimanali, la centralità delle plusvalenze nei bilanci delle società calcistiche, la compressione degli investimenti sui giovani – specie da noi, ahimè – e, in definitiva, la rimozione delle preoccupazioni per il futuro, nel nome del presente (non sono casuali le nostre esclusioni e, soprattutto, le brutte figure della nostra Nazionale, la quale ovviamente deve rinunciare agli stranieri, che illudono le tifoserie con i buoni risultati conseguiti dalle nostre squadre di club).

Sono davvero lontani, per il nostro calcio, i tempi in cui anche da noi, come nella Spagna di oggi, esordiva in serie A un sedicenne di nome Gianni Rivera e dai vivai uscivano comunque giovani calciatori ai quali non veniva vietato il dribbling e non veniva imposta la “partenza da dietro”. E ancor più lontani i tempi in cui un genitore poteva autorizzare il figlio a calcare i campi di calcio, “purché non si facesse pagare” (figlio che, per fortuna, gli disobbedì, per diventare centravanti del Napoli).

 

Comunque, apprestiamoci a goderci questa finale, con una bella dose di rimpianti e con l’incertezza della direzione da imprimere al nostro tifo, condizionato da ubbie politiche: un pizzico di maliziosa soddisfazione per l’eliminazione della rappresentativa di colore francese, tutta schierata politicamente “a sinistra” (non ci sono più i Kopa e i Piantoni di una volta, che si battevano contro i Liedholm e i Pelé); un impossibile pareggio di antipatie fra l’Olanda delle libertà che sconfinano nel libertinismo – e che oltretutto non ha più campioni come Cruijff e Krol – e la “perfida Albione”, fra l’altro appena consegnata alla sinistra sia pur moderata; infine un tifo contenuto per la Spagna: non possiamo più gridare “arriba Espana!”, da quando sono i socialisti a guidare il paese, ma leggere i libri di Arturo Perez-Reverte – soprattutto “L’italiano” e “Linea di fuoco”- un poco ci riconcilia con quei nostri cugini di oggi.

 

 

Giuseppe Del Ninno

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