Il dialogo filosofico tra Alain Badiou e Giovanbattista Tusa

La finitudine della vita, pensata solo in relazione a se stessa, forse paradossalmente, oggi consente di sporgersi sull’ “impensato”.

Viviamo nell’età dell’attesa, in un regno intermedio, nella fase storica che Bernard Stiegler ha definito della post-verità. Il mondo è governato dal capitalismo cognitivo, computazionale. Di fronte alla sua potenza il pensiero filosofico pare essersi smarrito, pur mostrando contezza, in alcune esperienze teoretiche contemporanee, del fatto che viviamo e pensiamo alla fine di un mondo. Il recente volume di Alain Badiou e Giovanbattista Tusa, Dalla fine, nelle librerie per Mimesis, ci immette in tale orizzonte speculativo-esistenziale in termini critici (per ordini:mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 90, euro 10,00).

Sono qui raccolte, il prologo e la conclusone di Tusa, le interviste dialogiche intrattenute dai due filosofi tra Berlino e Parigi nel corso degli ultimi anni e la postfazione di Jun Fujita Hirsoe. Volume di grande attualità, prende le mosse dalla constatazione di Badiou relativa alla fine della metafisica. Tale certezza è accompagnata in lui dalla convinzione che ciò che ci aspetta è ancora indisponibile, non chiaro.

  Tusa afferma, e la cosa è rilevante, che: «entrambi sentivamo l’esigenza di articolare nuovamente […] il rapporto tra potenza ed attualità» (p. 8). Il XXI secolo pare contraddistinto: «da un senso di esaustione, di esaurimento delle risorse», pratiche e teoriche (p. 8). Tale sentimento diffuso si accompagna a un’ idea di limite impoverita, centrata sull’idea progressiva e lineare del tempo, nella quale è implicita la possibilità di un’interruzione improvvisa del corso storico. A ciò si lega l’ideologia della “sostenibilità”, oggi dominante. Essa ha ridotto la politica a mera economia gestionale. Nell’Antropocene, rilevano i due pensatori, il dominio del Gestell è produttore di angoscia: l’uomo pensa di perdere il suo ruolo di “configuratore” di mondi. In realtà, in tale frangente, le relazioni generalizzate e incommensurabili indottedallo scambio capitalistico: «aprono il pensiero e l’azione a una scala che sfugge a ogni senso già stabilizzato» (p. 10).

La finitudine della vita, pensata solo in relazione a se stessa, forse paradossalmente, oggi consente di sporgersi sull’ “impensato”. Tale situazione era già stata rilevata da Foucault. È l’ “impensato” a rendere il pensiero necessario nell’età del suo oblio. Il senso della vita va riconfigurato in un orizzonte più vasto.

 Heidegger ha definito il mondo a lui contemporaneo in termini disradicamento, di in-familiarità. Per essere superato in un nuovo inizio avrebbe dovuto esprimere, usque ad finem, tutta la sua potenza distruttiva. La dimensione finita, per lo stesso Heidegger, sarebbe dovuta divenire heimat della filosofia post-metafisica.Badiou sostiene che il limite deve, certo, essere tratto costitutivo del pensare, ma attraverso una radicale decostruzione dell’heideggerismo, indotta dalla constatazione epocale della fine dell’”età dei poeti”. L’attualità è connotata dalla possibilità intuita da Rimbaud: il nostro tempo sarà segnato da “rivolte logiche”. “Rivolte filosofiche” risultato del malcontento esistenziale nei confronti della società iperindustriale. Si tornerà a: «credere in certo modo nella potenza dell’argomentazione e della ragione» (p. 15), a discapito del sentimento nostalgico e antimoderno di Heidegger. Solo pensare a partire dall’esperienza contemporanea, può consentire un effettivo superamento dello stato presente delle cose. La finitudine, compresa entro tale orizzonte, ci dice che l’universale vive solo nel dato singolare.

  É reale, per i due filosofi, solo ciò che trae: «la propria energia non dal futuro, ma dall’imperfezione di un passato non realizzato» (p. 20). Tesi già sostenuta da Benjamin. Il passato non realizzato,nel presente è possibilità vigente, tempo a venire. È l’impensato privo di contenuto rappresentabile, ci dicono i due autori. Il vigore filosofico, nell’età dell’estenuazione del pensiero, deve muovere dal frammento, dall’accidente e della contingenza, mai disunite, questa la nostra lettura, dall’origine. È una fine del pensiero capace di esaurire l’ “esaurimento” dell’età della post-verità, nel nome di una singolarità che Meillasoux ha definito archifossile, supporto materiale che: «apre la strada per trovare il “passaggio segreto” verso ciò che “la filosofia moderna […] ci indica come impossibile per sé: uscire da se stessi» (p. 22). Si tratta di una emancipazione del pensiero dal soggetto, dal potere dell’umano. Una terra incognita del filosofare in cui si incontra l’inumano, la dimensione ambientale della vita, la physis quale mixis: «Una forma di realismo necessario in un mondo senza unità deve assumere il fatto evidente che non siamo soli, che siamo immersi in un ambiente infinitamente più grande dell’umano come nostra unica realtà» (p. 23) e che tutto è in tutto. Ciò impone di pensare il mondo non attraverso il concetto, dando luogo a una staticizzazione logica del principio, ma quale campo d’azione di forze, di energie palpitanti, di poteri: «di legami con la […]  instancabile forza risorgente» (p. 23) della dynamis, della possibilitàpotenza.

 Condividiamo la diagnosi del mondo contemporaneo che emerge in queste pagine, dissentiamo, al contrario, dalla terapia proposta dai due pensatori. Badiou e Tusa la individuano in un ritorno del marxismo, nella abolizione della proprietà privata, atto politico capace di sottrarre gli “esclusi” dalla loro marginalità sociale. Un nuovo messianesimo mascherato, simile, per certi tratti, a quello che muove le pagine di Stiegler. Sarebbe al contrario necessario accettare la singolarità e la realtà in termini löwithiani, individuando l’orizzonte della physis quale unica trascendenzadella quale partecipiamo. A nostro parere, proprio Löwith, allievo infedele di Heidegger, nelle sue opere ha realizzato il programma del maestro: il superamento della metafisica e il ritorno a una visione monista del reale.

 Un libro, Dalla fine, da leggere attentamente e sul quale riflettere. Le sue pagine ci costringono a prendere atto del ruolo essenziale che la filosofia potrebbe svolgere nell’epoca iperindustriale della post-verità. Il filosofare deve però ritrovare il proprio ubiconsistam, la propria vocazione museale ed ellenica, oltre i falsi orizzonti disegnati da analitici, continentali e dai sostenitori di soteriologie messianiche, siano esse posizionate a “destra” o a “manca”.

Giovanni Sessa

Giovanni Sessa su Barbadillo.it

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