Michelangelo Antonioni e le sue fobie: l’incomunicabilità, l’angoscia del vivere

Ci costringe a specchiarci in quei personaggi intenti a districare quella loro esistenza inutile, incompresa

Michelangelo Antonioni

Se scrolliamo la storia del nostro secolo la sentiamo risuonare come un salvadanaio. Tutto è stato mercificato e monetizzato. “Sei sfruttato, fai sciopero. Fatti pagare,” la rivalsa sociale. “Questo oggetto è nuovo ed è in offerta speciale. Butta via quello obsoleto, non fare ridere i polli,” i sensali del consumismo. I pochi riottosi fanno del romanticismo, abbracciano chi incontrano per strada. O del lirismo, abbaiando alla luna. Nella storia del cinema è accaduto pressappoco lo stesso. Nel dopoguerra viene salutata con entusiasmo la nascita del neorealismo ma il pupo è già vecchio. Il battesimo c’è stato nella precedente epoca negletta e ripudiata. Basta vedere i film, i registi sono gli stessi.

Ed ecco Michelangelo Antonioni  con la produzione di tre film che saranno definiti la trilogia dell’incomunicabilità. Sono:L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962). È un’esplosione che colpisce con il suo silenzio, una quiete che inquieta, punitiva. Lui ha trafficato nei documentari che contengono i germi del suo morbo, ha collaborato con Lizzani, Zavattini. Inzuppa il ciak nella solitudine disperata di  Pavese. Sul comodino, per trascendere la decadenza della borghesia ha i libri dei fratelli Mann. Naturalmente Freud e Jung si fregano le mani: un altro cliente!

Silenzio, entriamo in sala e mescoliamo i film.   “I due restano immobili, senza guardarsi. Lo loro figure staccate l’una dall’altra. Nel fondo lo scheletro di cemento. Più oltre, il mare. Sandro non si muove. Un pianto soffocato lo scuote. Claudia allunga una mano. E gli accarezza adagio, con struggente disperazione i capelli. Lidia: No, non ti amo più! Nel prato i jazzisti suonano. Una musica lenta e dolorosa, che si intona con l’alba grigia di quel giorno. L’autobus fermo. Non c’è né Vittoria né Piero: nessuno dei due è venuto all’appuntamento. La casa in costruzione, nel buio ormai fitto della sera. I fanali spiccano nel fondo nero. Uno dei fanali vicinissimo, circondato da un alone intenso.” Sono i tre finali dei succitati film ma siamo sicuri che ci sia stato un inizio?

Antonioni ha portato noi, recalcitranti, in visita a una clinica per alienati, la nostra vita. E ci costringe a specchiarci in quei personaggi intenti a districare quella loro esistenza inutile, incompresa. Ci ha sorpresi avvinghiati a colei che affermiamo di odiare, ci imbarazza, ci obbliga al fermo immagine e  ripone i sentimenti nel freezer. Perché dovremmo ringraziarlo? È un medico severo, intrigante, ci ha decorticati e la sua medicina èamara, molto amara.

I fondali, gli scenari sono magri, macilenti e le figure le sputano, quasi a disfarsene. Poi ci ripensano e le ingoiano, le fanno scomparire.

Agli insistenti Antonioni risponde: “Ho voluto fare un film e basta.” E poi: “Un giorno inventai un film guardando il sole: la cattiveria del sole, l’ironia del sole.” Si schermisce: “L’alienazione non è mia ma di Marx e Adorno.”

Antonioni rifugge dall’operaio santificato dalla tuta che in tasca ha il sole dell’avvenire. Il suo è un neorealismo senza bicicletta, scrive Deleuze alludendo a De Sica. Il regista inquadra i pensieri, ricorrendo ai campi lunghi. I suoi attori abbandonano il corpo, rinunciano all’esteriorità. Antonioni va oltre l’esistenzialismo. All’uomo libero di decidere partorito da Sartre affida un megafono scarico e la vacuità della decisione.  Nessuno lo sente ed è condannato all’immobilismo.  C’è la necrosi del fare, dà valore alle pause e ruba il tempo. Si dirà che le piazze sono colme per i comizi ma sono parole al vento. Offre un piatto alla nausea di Sartre, la raccoglie,  poi la getta. Gli chiedono se crede, risponde di essere ateo, il suo ateismo è religioso, pudico.

Da ricordare che in quei tempi erano strapieni i cinema dove imperversavano Ciccio Ingrassia e Franco Franchi, 100 pellicole, e gli spettatori  ai ko di Rocky  applaudivano fragorosamente. Ai film “esistenziali” sono riservati ampi sbadigli e se per sbaglio ne vedono uno evitano accuratamente gli altri. Comunque i riconoscimenti ci sono stati: Leone d’oro a Venezia, premio della Giuria e Palma d’oro a Cannes, Orso d’oro a Berlino, Oscar alla carriera, nastri d’argento, David e grolla d’oro…

Dopo alcune  produzioni all’estero (Blow up, Zabriskie Point)Antonioni ha una lunga pausa che suggerisce un incauto avvelenamento dai suoi film degli anni 60. Le angosce illustrate si sono riversate in lui, come un boomerang. Quando riprende, 1980, mantiene lo stile di fare cinema aristocratico,  però si  è anche permesso lo spot per una canzone della Nannini, ma non c’è più quel male dell’esistere che fa traballare le nostre sicurezze.   Ammorbidito dagli anni si inventa soluzioni da offrire. Invano, resta il maestro dell’inconscio e i suoi cultori ormai sono degliavatar.

Nel 1985, Antonioni ha 73 anni, la natura beffarda entra in gioco e con la complicità di un ictus gli fa conoscere l’altra incomunicabilità, quella fisica. “Uomo gioca, gioca ma il banco lo tengo io!” ribadisce il fato. Lui è afasico come imponeva di essere ai suoi attori: Monica Vitti, Gabriele Ferzetti…

Michelangelo Antonioni scompare nel luglio del 2007, casualmente nello stesso giorno di un altro grande regista: Ingmar Bergman. Michelangelo è stato così longevo che nei suoi cimelifigura persino un polveroso Littoriale alla cultura vinto all’università di Bologna. Le radici, le radici!!

 

 

Gianfranco Andorno

Gianfranco Andorno su Barbadillo.it

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