Il caso della Carini: sul ring della politica mondiale ci si deve battere

Le Olimpiadi sono una vetrina mediatica che ispira stratagemmi discutibili

Il pianto della Carini

I

mane Kherif aveva gareggiato parecchie volte, ora vincendo, ora perdendo. Si sapeva dunque chi era ben prima delle Olimpiadi, supremo agone del soft power.
Con una metafora si direbbe che “chi vuole, vola; chi non vola, non vuole volare”. Alludo ai livelli di testosterone di Imane Kherif, quindi alla situazione olimpica che si poteva gestire meglio: Angela Carini poteva rifiutare di salire sul quadrato. Ma ci è salita.
La scelta di esserci, ma di non battersi, rinunciando a tenere alta la guardia, non è condivisibile, sebbene si sia rivelata mediaticamente e quindi politicamente efficace.
Ogni pugile sa che i colpi si danno e si prendono. Che prenderli faccia male è quanto meno ovvio.
Primo comandamento sportivo: battersi.
Secondo comandamento: vincere.
Il piagnisteo dello sconfitto può intenerire. Ma è solo la protesta politica di un vincitore che resta nella storia e non solo quella dello sport.
Città del Messico, 1968. Sul podio due velocisti americani neri alzano il pugno con il guanto nero come protesta. Lo ricordiamo ancora oggi.  Specie quando, con lo sport, si fa anche politica a livelli mondiali, si ha paura, ma occorre dominarla.

Massimo Albasini

Massimo Albasini su Barbadillo.it

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