Il viaggio? E’ ricerca inesausta della verità (non consumo)

La poesia del viaggiare non è riposarsi dalla monotonia domestica: è avere esperienze, vale a dire arricchirsi", diceva Herman Hesse

Classic caravan parked in front of the beach. Original public domain image from Wikimedia Commons

“La poesia del viaggiare non è riposarsi dalla monotonia domestica, dal lavoro e dalle seccature, non è l’incontro occasionale con persone diverse, non è vedere altri panorami: è avere esperienze, vale a dire arricchirsi, pervenire all’aggregazione organica delle nuove acquisizioni , accrescere la propria capacità di cogliere l’unità del molteplice, il grande ordito quale sono la terra e l’umanità, è ritrovare antiche verità e leggi in condizioni di vita assolutamente nuove”. Ed oggi ? Che cosa resta di quella che Hermann Hesse chiamava (in L’azzurra lontananza) “la poesia del viaggiare” … “il romanticismo del viaggio” ?

Tra il viaggio esperienza diretta e la metafora intellettuale lo spazio è sterminato, mentre sempre più dilatato è il potere di una cultura del viaggiare svilita, resa “piccola”,  dalla pratica del  “fare viaggi”, di quello che sempre Hesse definiva “l’insensato piacere di viaggiare tanto per viaggiare”. “Chi intraprende un viaggio per diporto – scriveva l’autore de L’azzurra lontananza – dovrebbe in verità sapere che cosa fa e perché lo fa. Oggi il cittadino, l’abitante della metropoli, non lo sa. Viaggia perché d’estate in città fa troppo caldo. Viaggia perché cambiando aria, vedendo ambienti e persone nuove spera di riposarsi dalle fatiche del lavoro”.

Ai nostri giorni, segnati dai bollini neri dei flussi autostradali,  è   lontano il tempo del viaggio come “cammino”, come “via della conoscenza”, in cui allo “spostamento” corrispondeva una profonda, intimamente vissuta crescita dello spirito, irrobustitosi nella prova, vitalisticamente teso alla scoperta dell’esotico, del nuovo, dell’imprevisto. “Fino al secolo scorso – ha  scritto Piero Chiara – viaggiavano solo gli esploratori e certi ricchi letterati, come l’Alfieri, il Gorani o l’Algarotti. Il viaggio era quasi una categoria dello spirito. Il viaggio in Grecia, in Italia, in Spagna, erano visite e addirittura pellegrinaggi alla fonte di una tradizione culturale. Oggi si scavalcano i continenti e gli oceani senza alcuna emozione estetica”.

Il  viaggio è inclusive tour ed il “viaggiatore” è sempre più un turista svagato, che “gira” appunto alla ricerca di qualche “distrazione”, più attento alla guida indigena o tascabile, alle stelle degli hotels e ai ristoranti segnalati che alla tipicità dei luoghi e delle culture.

D’altro canto gran parte del fascino dell’esotico, offerto dall’ “industria del turismo”, resiste a malapena sugli ammiccanti deplians pubblicitari e sui manifesti delle agenzie specializzate, mentre le architetture ed i costumi, i cibi e le musiche locali paiono lentamente confondersi, in una sorta di cosmopolitismo livellatore.

E’ lontano il tempo del viaggio come “ritrovamento” di radici, tra pietre che, lungi dall’essere silenziosi e statici simulacri, parlano della vita e alla vita, della civiltà per la civiltà. E  lasciano ancora estasiati. Come fu per i grandi viaggiatori romantici, al punto che “Viaggio in Italia” fu il libro-esperienza comune a J.W. Goethe, a H. Taine, a T. Mommsen.

“Non è possibile esprimere a parole – scrive Goethe nel 1787 – la temperanza vaporosa che avvolgeva le coste nel bellissimo pomeriggio in cui arrivammo a Palermo. La purezza dei contorni, la morbidezza dell’insieme, lo svariare delle tonalità, l’armonia del cielo, mare e terra. Chi ha visto tutto questo lo conserva (nel suo spirito) per tutta la vita”.

E’ allora  sintomatico  che nell’epoca delle comunicazioni globalizzate ci si trovi, noi poveri naufraghi alla ricerca della “poesia del viaggiare”, a dovere rovistare nelle scansie della letteratura, nell’inquietudine delle esperienze già vissute che si fanno cultura viva, nel viaggio come rinascita, riscoperta delle “antiche verità e leggi in condizioni di vita assolutamente nuove” – come scriveva Hesse. Categoria dello spirito e metafora dell’esistenza, il viaggio è – in fondo – la letteratura: immenso e misterioso nelle grandi opere della classicità, fantasioso e sublime nelle discussioni “delle cose più meravigliose e più notabili al mondo” del cavaliere John Mandeville, pellegrinaggio mistico in Dante, avventuroso nell’immaginazione di Verne, “quotidiano” per il Xavier de Maistre del Viaggio intorno alla mia camera, inquietante nelle sue proiezioni extragalattiche e fantascientifiche, assurdo e crudele nel Voyage del celiniano Bardamu, per arrivare a Jack Kerouac, il cantore più lucido e moderno, sulla scia di Hesse, della “poesia del Viaggio” ed insieme uno dei più rivoluzionari. Con Kerouac il viaggio diventa compiuta e lucida trasgressione nei confronti dei “normali” canoni esistenziali, dei codificati modelli di vita propri delle società occidentali-capitalistiche, rinserrate nella triade produzione-consumismo-conformismo.

In Kerouac il Viaggio è rifiuto della norma e ardente ricerca di chi ha fatto del proprio “sradicamento”, della propria “fuga”, un progetto esistenziale, vitalistico ed alcolizzato, mistico e corrosivo.

Sul fondale, Anni Cinquanta, della provincia americana, tra le pieghe delle nevrosi metropolitane, nei misteriosi “sotterranei” urbani, è la disperata volontà di ricercare una via, “la via” antica e nuova della libertà interiore ad emergere, ebbra di velocità e di solitudine, di notti insonni, di sesso, di inquietudini giovanili. Con la lucida determinazione di chi ha tagliato la terra dietro le proprie spalle, on the road, nel viaggio che diventa vagabondaggio, in un errare senza mete apparenti o forse verso mete solo apparentemente designate, Kerouac e con una generazione lancia, tenta di lanciare, la sua sfida nella disperata ricerca di nuovi canoni morali, di una ragione più vera e profonda per essere, al punto che è il Viaggio in quanto tale che si impone, senza aggettivi, né scopi definiti.

Il Viaggio è la vita e la vita è ricerca inesausta della verità, senza orpelli intellettualistici, crudamente vera come  Peter Martin, Dean Moriarty, Jack Dulouz, in cui la “presa di coscienza” verso un’America già rosa dal male sottile della disillusione era  nel loro modo di essere al mondo. Il viaggio veniva ad autogiustificarsi di per se stesso. New York o San Francisco, Città del Messico o Tangeri, Parigi o Londra … poco importava. “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati: ‘Dove andiamo ?’ Non lo so, ma dobbiamo andare”.

Mario Bozzi Sentieri

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