TuVuo’Fal’Americano. La corsa di Trump sempre contro un dem donna

Sfida Kamala Harris, la prima donna di colore, di origine afroamericana e indiana, dipinta quale portabandiera della lotta per i diritti civili, tutte le libertà, la qualità di vita dei ceti medi e popolari

Kamala Harris

In vista delle elezioni del 5 novembre è in corso la ‘Democratic National Convention’ (Chicago, 19-22 agosto), per appoggiare la candidata dem ufficiale, Kamala Harris, attuale vicepresidente degli Stati Uniti, giàsenatrice per la California ed ex-procuratrice generale della stessa. Che sarà accompagnata da Tim Walz, governatore dem e liberal del Minnesota. La Conventiondemocratica celebra la natura senza precedenti della candidatura alla Presidenza di Kamala Harris, una procuratrice ‘combattente che non si piega ai bulli. E giù aiosa con tutto il repertorio Woke, LGBT+, Black-femminista ecc. della finora sbiadita N. 2 dell’amministrazione del vecchio sleepy Joe (rimba)Biden, per dirla con i trumpiani. Trump, scampato da poco ad un attentato come di norma succede, ovunque, ai candidati di ‘destra’ dal canto suo ha scelto per vice James David Vance, senatore repubblicano per l’Ohio. Nel romanzo autobiografico che l’ha reso famoso, ‘Elegia americana’, Vance racconta quell’America della working class bianca e del Midwest industriale che si sente abbandonata dalle élites progressiste.      

Scrivevo otto anni fa, dopo la vittoria, quasi inattesa, di Donald Trump alla Casa Bianca:

Mentre osservavo sullo schermo tv ampliarsi la macchia rossa del trionfo repubblicano, allorché il Partito Repubblicano conquistava la maggioranza dei due rami del Congresso, dei Governatori, alla sobrietà di fondo dei commentatori statunitensi, ancorché delusi, si contrapponeva l’uragano di rabbia e scontento dei soliti illuminati di casa nostra, i pretoriani del migliore dei mondi, quegli schifiltosi, intolleranti radical-chic che si riempiono la bocca di democrazia solo finché essa coincide con la loro visione dell’universo, per ridursi a becera destra fascistoide’, trionfo di bassi istinti e stolte paure, tipiche degli ignoranti, una vera minaccia per l’orbe terraqueo, non appena il popolodecide di riappropriarsi di porzioni del proprio destino, non obbedendo più alle parole d’ordine veicolate dalla stampa e media del regime globalizzato che, anche nel caso della candidatura di Trump, ha fatto ricorso ad ogni sorta di colpi bassi, calunnie. Come si stavano permettendo i bifolchi della Bible Belt, gli aficionados razzisti della NASCAR, la working class del Midwest e la middle class, flagellata dalla crisi economica, gente sobria ed industriosa, amante dell’ordine, discendente dagli immigrati europei che costruirono pazientemente, giorno dopo giorno, l’American Dream, a contestare le verità assolute del mondo liberal, delle Università, del NYT, di Wall Street, delle stars di Hollywood, dell’establishment di Washington? Come osavano ribellarsi e ripudiare il Verbo Supremo del Politically Correct, del Gender Fluid, del turbofemminismo?

Varie cose sarei pronto, ed intimamente felice, di poterle riscrivere. Sappiamo tutti che cosa è poi successo alla Presidenza Trump nella superdemocrazia fondata sul denaro. Il Make America Great Again!, suo slogan di battaglia, è stato travolto dalla pandemia Covid alla possibile rielezione del 2020 e, forse, dai brogli che segnano puntualmente, veri o invocati o esagerati, le elezioni USA. Oggi chi scrive dell’elezione di Kennedy, nel 1960, ammette, ad esempio, che il vincitore sarebbe stato Nixon senza i brogli, ma Nixon voleva tornare ad essere candidato, non rischiare la crisi istituzionale. Il voto postale, esteso a tutti, una loro particolarità, si presta facilmente ai brogli.

Allora Trump dichiarava: “Sono orgoglioso di essere il primo Presidente da decenni a non aver iniziato nessuna nuova guerra”, pur ereditando le guerre infinite in Afghanistan, Libia, Siria, Yemen; riducendo l’impegno militare nei teatri di guerra; frenando le spinte per realizzare regime-change in giro per il mondo, come sotto l’amministrazione Obama. Inoltre, Trump è stato il primo leader a prospettare sul serio ‘il caso cinese, l’obiettivo della Potenza comunista di egemonizzare l’Occidente attraverso l’economia e la tecnologia (e sbandierando i fantasmi del surriscaldamento globale). Un’America che non esporta più democrazia, ma che flette i muscoli senza sparare. Infine, gli indicatori economici affermavano che con Trump il benessere dei cittadini e delle  imprese statunitensi era cresciuto e che le tasse scendevano; tagliandosi fuori dai folli Accordi di  Parigi, smascherando le ipocrisie green; cambiando il volto del Grand Old Party.

Tutto vano, come visto, con Trump quindi trascinato, e condannato, in decine di processi-farsa, evitando l’inabilitazione grazie solo alla Corte Suprema, in maggioranza conservatrice.  Con il ‘trumpifugo’, scialbo Biden, come scriveva nel 2020 Veneziani, ‘Non vedremo più mobilitarsi gli antifà, i neri in assetto di guerra, i cortei e gli assalti ai poliziotti, ci risparmieremo di vedere gli inginocchiati ed i loro piagnistei planetari‘ contro il Presidente-canaglia!

Sappiamo che successi ed insuccessi in politica estera muovono pochi voti, a meno che non coinvolgano le vite degli americani. Perché l’amministrazione Biden è stata ‘colpevole’, checché se ne dica e scriva, della guerra tra Ucraina e Russia, almeno quanto Mosca e Putin. La corsa al riarmo che ne è scaturita, comunque finisca il conflitto, è stolta, contraria ai veri interessi europei, soprattutto. L’Europa ha pagato un prezzo alto, e non solo in termini di approvvigionamenti energetici ed inflazione. E pagherà. Basta fare gli áscari di Washington in funzione antirussa, pensano in molti. L’Ucraina ha sempre fatto parte della Russia moderna. Non esiste alcuna ragione storica, logica, di opportunità contingente, per sposare le strampalate idee imperialistiche USA. Se sapessero di geopolitica, a Washington, avrebbero forse fatto meglio a non entrare nella WWII e così elevare URSS e poi Cina al ruolo di superpotenze, mentre Germania e Giappone, per dimensioni e risorse, mai avrebbero potuto aspirare sul serio a quel ruolo

Non è detto, però, a meno che Washington dica a Kiev che è giunta l’ora di smetterla (nel Donbass l’avanzata russa appare inarrestabile), che la ‘minaccia nucleare’ non mobiliti una parte dell’elettorato USA contro la Harris, che della fallimentare politica estera di Biden è stata, in fondo, pienamente partecipe. Si legge che il risultato dell’elezione del prossimo novembre è assai incerto, che Kamala si occuperà più di lavoro e ceti medi che di starnazzare ancora su diritti LGBT+ e minoranze varie. Il calcolo della campagna di Kamala appare quello di accantonare le incognite fiscali per puntare al recupero dei voti del ceto medio degli Stati ‘in bilico’, che le servono per vincere. Ma non c’è solo tattica nelle sue scelte. L’essere stata piuttosto nell’ombra, fino ad un mese fa, le dà il vantaggio di potersi costruire un’immagine relativamente nuova. Deve cancellare le scelte del 2020, che l’avevano vista schierata con la sinistra liberal: quindi, basta divieto di estrazione di idrocarburi, né Medicare for All, cavallo di battaglia di Bernie Sanders verso un sistema sanitario pubblico. E nemmeno la depenalizzazione dell’immigrazione clandestina, a suo tempo tanto cara all’attuale vicepresidente.

Gianni Marocco

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