TuVuo’FaL’Americano. Kamala Harris, il Woke e le armi

La Convention dem di Chicago ha appena incoronato la vice di Biden come candidata alla presidenza nelle elezioni del novembre prossimo

Kamala Harris

Il contorno di lacrime ufficiali del comando dem Obama-Clinton-Pelosi e quelle (sincere) del vecchio Bidenè assomigliato a veglie funebri di personaggi ove tutti ne tessono le lodi, soprattutto perché il caro estinto – già mito, il migliore, il comandante intoccabile, che stava benissimo di salute ed avrebbe rivinto, fino a due settimane primasi era tolto di mezzo, dopo i sondaggi disastrosi, l’attentato a Trump, il pressing dei donatori.Perché, come scrive l’amico Marco Zacchera ne Il Punto del 23.8.24, ‘La Kamala superstar, è evidente che alla Casa Bianca da tempo comanda un comitato d’affari militare, lobbistico ed economico che aveva ed ha il suo front desk nell’acciaccato Biden, ma che dietro tira le fila di tutto. Un gruppo che ha capito che avrebbe potuto perdere il Potere. La candidatura di Harris è così diventava necessaria. Fino ad un mese fa improponibile per i suoi limiti ed il suo grigiore, ma improvvisamente diventata   sfolgorante, per chi dovrà manovrarla:rinvigorire le mosce truppe democratiche. Una mediocre è diventata così una specie di divinità circondata da una adulazione sconcertante. In Italia, poi, a sinistra, a Repubblica e Corriere, non è parso vero trovare una figura democratica di colore, turbofemminista, pro-gender, woke, BLM, abortista, ecologista, da sponsorizzare enfaticamente. Ha ben notato Franco Lodige nel blog di Nicola Porro, il 22.8.24,A Kamala tutto è permesso: il suo populismo spacciato per inevitabile’. Un discorso gonfio di retorica, ma privo di contenuti:

“Nessuno ha provato a negare l’evidenza: Kamala Harris è populismo allo stato puro. Ma ecco la soluzione per l’impasse: la nascita del populismo buono. La beniamina della sinistra internazionale ha sfoderato una serie di supercazzole d’autore, la fiera delle banalità, ma la vera nota dolente è legata al capitolo economico. Persino i suoi sostenitori hanno evidenziato le zone d’ombra del suo progetto. Sì, perche’ l’intervento della Harris è stato una clamorosa filippica populista. Però il Corriere della Sera non s’è scoraggiato ed ha tirato fuori la perla: il populismo inevitabile, giustificato dall’emergenza, ossia dalla possibile vittoria di Donald Trump”.

I repubblicani hanno in verità (solo) un Trump, che ragiona a volte come il classico toro nell’arena e quindi circondabile, attaccabile, inviso a metà del Paese. Per il quale, ancora a fine luglio, Kamala Harris ‘era una barbona, vicepresidente fallita in un’Amministrazione fallita, con milioni di persone che attraversavano il confine’. Donald Trump un Berlusconi più volgare e meno simpatico, dallo stile sibaritico di vita, guru dell’arricchimento, a cominciare dal suo libro How to get rich (2004), col quale lanciò lo slogan Fight hard, fight always, che esibisce sfacciatamente i suoi vizi, parla adistinti basici della società americana attira fedelissimi scatenati, ma spesso urla anziché far ragionare. Con Harris, si legge, forse i dem tiepidi andranno a votare e soprattutto alcune minoranze e classi sociali faranno la differenza, purché il demone-Trump, il presidentecanaglia, resti il razzista bianco cattivo, incarnazione del Ku-Klux-Klan, ispiratore ipso facto di pericolosi fascisti, sovranisti, populisti, negazionisti, dipinto come un capo ideale per far disastri. Per la verità, non è piaciuta molto ‘a destra’ in Italia – e sue ragioni a parte – la marcia di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, quando, istigati dal Presidente sconfitto, i suoi sostenitori invasero il Campidoglio con l’obiettivo di salvare la democrazia...

Con un discorso di 45 minuti davanti ad oltre 17 mila dem dello United Center di Chicago, Kamala ha lanciato la sfida per la Casa Bianca puntando su tre messaggi: l’obiettivo di ricostruire il ceto medio, stingendo i programmi radicali woke, la necessità dimpedire a Trump di tornare Presidente e la volontà di rafforzare la leadership americana nel mondo. Si legge che, all’indomani della Convention, Kamala ha polverizzato i record dei suoi finanziamenti (540 milioni di USD). Lecite alcune angosce, perche’ Donald Trump è già stato Presidente, mentre i bottoni nucleari nelle mani della Harris stimolano qualche brivido… Se la Harris fosse stata una ‘normale’ professionista statunitense bianca probabilmente lavorerebbe coscienziosamente per far sbarcare il lunario alla sua famiglia. Ma sappiamo come oggi vanno le cose e lei, la quasi sessantenne laughing Kamala, nata col ‘colore giusto’, californiana liberal, già Procuratrice Generale, con un ‘opportuno’ marito ebreo, appare una epitome di Politically correctness

Nel dicembre 2018, nel corso di una visita in Iraq, Trump aveva dichiarato che Gli Stati Uniti non possono continuare ad essere i gendarmi del mondo, ribadendo la scelta di ritirare le truppe americane da vari scenari mediorientali. Le dichiarazioni del Presidente indicavano una prospettiva, già perno della sua campagna elettorale: quella di porre fine all’interventismo americano nel mondo, chiudendo l’era del regime globale neocon. I neocon sembravano aver perso la speranza di controllarlo, un cambio di tattica sintetizzato nel titolo di un articolo del Washington Post: Una presidenza canaglia: l’era del contenimento di Trump è finita. L’opzione di Trump, il ‘disimpegno’, gli avvertimenti agli alleati della NATO perassumere impegni e carichi maggiori, appariva una vera e propria insurrezione contro l’agenda neocon.

Come  acutamente rilevava Veneziani (La Verità,  8.11.2020):

Trump non ha voluto essere un leader globale, ma è rimasto saldamente ancorato alla sua America: America first. America alone. Non ha invaso i mercati, non ha colonizzato il pianeta, ma ha protetto i prodotti americani, è rimasto sulla difensiva. Non ha dato vita a nessuna internazionale sovranista. Non ha conteso alla Cina il controllo dell’Africa, ha avuto con l’Asia solo rapporti di concorrenza. Ma soprattutto non ha inteso esportare il modello americano nel mondo, si è limitato a proteggere dal mondo gli Stati Uniti. Per la prima volta l’America non si è identificata con la globalizzazione, ma con la difesa dalla globalizzazione.

Non è difficile immaginare che i produttori di armamenti abbiano contribuito assai a tali 540 milioni (e più ancora faranno) tenendo presente che hanno guadagnato circa  500 mila milioni con Biden-Harris, specialmente a causa della guerra tra Russia ed Ucraina, attuata per procura, sulle spalle dei poveri ucraini, e non per sola colpa dell’imperialismo neo-zarista o neo-staliniano di Vladimir Putin. Il programma di Trump era, ed è, quello quello dell’ America First, non neo-isolazionista, ma per gli interessi concreti della sua gente, i valori atavici, il well-being diffuso, quell’American dream ridotto ad una reminescenza. Penetrante al riguardo, pur non sempre condivisibile: Sergio Romano, Trump e la fine dell’American dream (Longanesi, Milano, 2017).

Con la volontà di Harris di rafforzare la leadership americana nel mondo, per loro sarebbe una manna. Geopoliticamente, la Presidenza Biden-Harris è già stata un disastro. Ha fatto crescere, con i rischi di un conflitto atomico, la conflittualità con Cina ed Iran, distrutto totalmente il residuo legame con Mosca ed appannato quello con l’Europa; allontanato i restanti Stati BRICS (Brasile, India, Arabia Saudita, Emirati, Sudafrica, Egitto, Etiopia); compromessi gli Accordi di Abramo (la Dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti ed USA del 13 agosto 2020); isolato Washington, in sintesi. I mercanti di cannoni’, per dirla con Papa Francesco, se ne fregano di diritti e geopolitica a medio termine: a loro interessano i quattrini ‘sporchi, maledetti e subito’, pertanto dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Mar della Cina aiCaraibi, per loro tutto fa brodo…

Senza scomodare Spengler ed Huntington, bene ha ricordato un articolo di Massimiliano Panarari, su La Stampa del 26 ago 2024, un libro del 1987 che suscitò vasta risonanza. Era il decennio dell’ottimismo e dell’idea di crescita illimitata, sulle quali regnava l’America di Ronald Reagan, destinata a festeggiare il trionfo del ‘Secolo americano’ e la capitolazione dell’URSS. In quel clima euforico un professore britannico di Yale, storico delle relazioni internazionali e geopolitica, Paul Kennedy, pubblicava The Rise and Fall of the Great Powers. Cioè Ascesa e declino delle grandi potenze (trad. italiana, Garzanti, 1999), nel quale passava in rassegna i cambiamenti politico-economici e quelli militari degli ultimi quattro secoli. E arrivava così a formulare la profetica ‘legge di tendenza’: l’incremento del budge tmilitare, oltre il tetto delle risorse investite dai poteri pubblici per supportare lo sviluppo economico, coincideva con l’inizio della fine per la nazione egemonica. Assistiamo ora, pur senza capirlo appieno, al declino del neoliberismo, seppure l’Illuminismo applicato continui a rappresentare una sorta di magnete multiculturale in ogni angolo del Villaggio Globale. E la decadenza è quella di tanta parte delle classi dirigenti americane ed europee, irresponsabilmente ossessionate dall’inseguimento populista dell’elettorato o lontanissime dalle problematiche quotidiane delle persone comuni, gli intellettuali rimpiazzati da pubblicitari, spin doctor, consulenti di immagine. La post-sfera pubblica, egemonizzata dalle retoriche dell’uno vale uno e dal ridimensionamento demagogico della politica richiederebbe, invece, antidoti efficaci ed inversioni di tendenza.

Sostenne il Presidente Trump, in occasione delle celebrazioni per il 4 luglio 2020, giorno dell’indipendenza dell’America, al Monte Rushmore:

“Non potrebbe esserci posto migliore per celebrare l’indipendenza.  Sono qui per proclamare al Paese e al mondo che questo monumento non sarà mai profanato, il Monte Rushmore resisterà per sempre come tributo eterno ai nostri antenati ed alla nostra libertà. La nostra nazione sta assistendo ad una campagna spietata per spazzare via la nostra storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e di indottrinare i nostri figli. Folle rabbiose stanno cercando di abbattere le statue dei nostri fondatori, sfigurare i nostri monumenti più sacri e scatenare un’ondata di crimine violento nelle nostre città.

Il caos gestito dai democratici liberal era, per Trump, il risultato prevedibile di anni di estremo indottrinamento e faziosità nell’istruzione, nel giornalismo ed in altre istituzioni culturali.

Contro ogni legge della società e della natura, ai nostri figli viene insegnato a scuola a odiare il proprio  Paese ed a credere che gli uomini e le donne che l’hanno costruito non fossero eroi, ma persone cattive. La visione radicale della storia americana è una rete di bugie, ogni visione viene rimossa, ogni virtù viene oscurata, ogni fatto distorto ed ogni difetto amplificato fino a quando la storia non è epurata. Questo movimento sta attaccando l’eredità di ogni persona sul Monte Rushmore. Hanno macchiato il ricordo di Washington, Jefferson, Lincoln e Roosevelt. Chi tace sulla distruzione di questa eredità non può condurci ad un futuro migliore.

Per chi crede che l’identità sia un bisogno radicale dell’essere umano, naturale, culturale, individuale, di collettività (come lo è la pace, non quella di Putin, ma neppure quella di Netanyahu o Zelensky) non dovrebbero esistere dubbi sull’opzione migliore (pur imperfetta) per il prossimo novembre, e per tutti: Deranged Donald‘, il tycoon inaffondabile Donald Trump.

Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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