Campo di battaglia di Gianni Amelio, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e in sala dal 5 settembre, è una storia-non storia. Non esiste una vicenda da raccontare ma un quadro da dipingere a colpi di pennellate che descrivono stati d’animo e ambizioni. Ricordi e aspirazioni. Frenetiche rincorse verso il nulla. Convinti passi verso l’effimero. Un buon film che rischia di non essere capito o, peggio, di essere strumentalizzato. Eppure non merita questa sorte perché lo spirito è più alto di semplici vicende terrene che la Storia – quella con la esse maiuscola – ha già approfondito e chiarito. E il punto sta in un piccolo errore del titolo che avrebbe dovuto essere “Campi di battaglia”, con il plurale del primo sostantivo.
Dal remoto ieri di oltre un secolo fa sorge infatti il parallelismo con l’oggi di cent’anni dopo. Quando i campi di battaglia si moltiplicano. Quello del combattimento e delle trincee è lontano dagli occhi e dal tempo. Nelle sequenze di Amelio appare filtrato da racconti laconici. Pianto e battiti di denti. Frammenti da XX secolo, congiunti all’attualità da un virus – quello della spagnola – che semina morte e sepoltura. I camion travestiti da pompe funebri. I viaggi senza ritorno. I tentativi disperati di trovare un rimedio o un vaccino. Ma, a suo modo, è un campo di battaglia anche il confronto fra Giulio e Stefano, divisi dall’ideologia e – in fondo – da una donna che entrambi desiderano. Ed è un campo di battaglia pure il lavoro di Anna che promette ma non premia che distingue e ghettizza sulla base di un genere sessuale. Femminile singolare. Ieri. Oggi. Forse domani.