L’amore, la musica e la dismisura secondo Mario Incudine

Il cantautore siciliano torna con “Il senso della misura”. Il disco è uscito il 2 agosto in contemporanea al tour nazionale

Si intitola “Il senso della misura” il sesto disco di Mario Incudine, cantautore e attore e mille altre arti. Ma sarebbe stato meglio confessare “Ho perso il senso della misura”. Come si fa a scrivere dodici straordinarie canzoni e pensare che ci sia una misura ossia qualcosa che non debordi, che si mantenga entro un qualche confine, che si muova timido tra pentagramma e foglio? Non è la maturità ciò che Incudine trova: quella già l’ha dimostrata nel frenetico viaggiare tra un palcoscenico e l’altro su e giù per il mondo. In “Il senso della misura” Incudine si getta dentro un mare letterario finora navigato, in quasi trent’anni di carriera, per lo più tenendosi vicino alla costa della musica.

Spiega le vele, Incudine, dentro le tempeste della letteratura, con una mano tiene il timone della musica e con l’altra stringe la bussola dell’amore. E spinge il suo istrionico talento oltre ogni misura di bellezza. “Il senso della misura” è un disco che esige la dismisura.

Nell’ascolto, innanzitutto: un’ora circa di musica da ascoltare moltiplicata finchè…boh! Nel trionfo di strumenti in un felice connubio di tradizione e sperimentazione: la fisarmonica, il pianoforte, l’organo, la zampogna “a paru”, il rodhes, il synth del maestro Antonio Vasta, che con Incudine finirà per farsi binomio e ancora piatti, rullante, grancasse, bouzuki, mandolino, tammorre, ghironda e programmazione elettronica che è come creare la w.w.world music (hanno suonato anche Manfredi Tumminello, Luìs Peixoto, Pino Ricosta, Francesco Bongiorno, Placido Salamone, Massimo Vanni e l’Orchestra della Magna Grecia diretta da Valter Sivilotti). Nel fascino delle voci: quella unica, estesa, duttile di Mario Incudine e le voci di Biagio Antonacci (suoi musica e testo di “Tienimi terra”), di Iole Incudine, di Faisel Taher (Il cantante palestinese che con il gruppo Kunsertu importò in Italia la world music) fino a Pippo Kaballà (con Incudine e Moni Oviadia scrisse già le musiche di “Le Supplici” per la Stagione Inda 2015). Per la malinconia nella traduzione in siciliano di “Amara terra mia” (idea e voce recitante del giornalista Federico Quaranta), brano che chiude maestosamente il disco in un ideale chiasmo, caratteristica di tutto il disco, di dialetto siciliano e lingua italiana, di emozioni che lo stesso Modugno proverebbe, a sentir la sua terra amara e bella divenire “zuccaru e feli” (zucchero e fiele). Nell’amore, che per definizione esige la dismisura, con buona pace di Sant’Agostino “La misura dell’amore è amare senza misura” e Incudine talvolta indulge verso dentro un lirismo solo apparentemente controllato

“E’ tutto lì, /in quel continuo dover decifrare/ le carte sconosciute ai naviganti/ che il mare non è sempre tutto uguale/ se Euro apre l’otre dei suoi venti”

Canta in “Irene”, aggiungendo un altro tassello al mosaico del cantautorato italiano di padri che scrivono canzoni d’amore per i figli. Incudine sa decifrare le carte scompigliate dal vento e le sa mettere in ordine in un racconto in versi dell’amore: per una donna, per una figlia, per la vita, per la terra.

“E’ tutto lì”, in quella zona franca che la critica letteraria stenta a cedere nel distinguo tra poesia e canzone. “E’ tutto lì”, se Mario Incudine cercando la misura, che è come dire fare il bilancio, dei suoi primi quarant’anni, scrive canzoni e gli vengono fuori poesie, se compone poesie che hanno senso solo se diventano canzoni. “E’ tutto lì”, nella celebre ironia di Fabrizio De Andrè che chiamò il più rigido dei critici, Benedetto Croce, per dirsi né cretino né poeta ma solo cantautore. Chiamiamolo così, Mario Incudine: cantautore. Oltre il recinto del cantastorie. Tradizione nobilissima, che Incudine ha esaltato e fatto rivivere, ma che lo chiuderebbe dentro un folclore che la maturità di “Il senso della misura” supera e ne fa tradizione. Resistono le sonorità mediterranee, resiste la serenata e il cunto, ma emergono da un tessuto linguistico e sonoro contemporaneo. Il risultato è un disco complesso, attraversato da una corrente gravitazionale che lo spinge al centro dell’universo. Dove c’è l’amore. Dove c’è un collo di donna inciso di un canto, dove prende fuoco “una carezza lunga come una canzone/ che ti percorra tutta dalla nuca al tallone”.

“E’ tutto qui”, tutto è nelle parole d’amore quelle della sabiana rima più antica e difficile del mondo. Il bacio della rima canzone/tallone è il bacio della poesia che non esiste senza l’amore, senza un corpo da percorrere con la lingua e le mani del desiderio. Che non esiste senza farsi opera d’arte. O letteratura, e non è poco.

La letteratura, dunque. E la canzone d’amore con cui la letteratura è cominciata. La canzone per una donna. E i senhal della tradizione dei menestrelli. La donna di Incudine nulla a che fare con tensioni spirituali. Anzi, ha seni, occhi, labbra, collo, pipì. Nessuna aureola, nessun paradiso se non quello di mani che toccano, baciano, prendono un corpo. Lo accendono.  A proposito di fuoco, è divertente trovare il “se” di Cecco Angiolieri nel brano d’apertura “Se questo amore”: il poeta senese ispirò anche De Andrè e Incudine non lo dimentica

Se questo amore fosse un rumore/ sarebbe il suono del tuo bussare/ i passi certi verso la porta/chiusa a metà tra il teatro e il mare”.

C’è Pessoa con la sua “Hora absurda” e i versi del silenzio e c’è Roma in una delicata parodia della Roma stupida di “Rugantino” di Garinei e Giovannini. Due amanti e la città eterna.

Roma ora fa la stupida/ed in piena notte si fa fredda e gelida/io ti copro col lenzuolo/ bacio le tue spalle e ti prendo in volo

L’amore eterno della splendida “I giorni dell’abbandono” in cui il ritmo di mandolino e chitarra martellano le ripetizioni (caratteristica dello stile dei testi di questo lavoro) di un abbandono che incatena

Io di più non posso darti,/ non sono quello che sono,/ sono le braccia che ti incateneranno/ nei giorni dell’abbandono

Due amanti dentro un quadro di “Chagall” e un violino lontano che vibra il possesso e la perdita, i capricci e la passione, “quel ciatu amurusu”(fiato d’amore)  che allontana la morte.

Fino ad esplodere dalle viscere della brama “E ora spogghiati e parlami d’amuri” e mutarsi nella resa totale

Ho consacrato le mie mani alla tua pelle/la ragione alla forma delle stelle/ le mie notti aggrappato alle tue spalle….la mia musica a una chitarra da accordare

Le note e il corpo. Le note, il corpo, le parole.

Le parole di Ibn Hamdis perché Incudine è la Sicilia e la Sicilia è Mediterraneo, melting pot felice di culture, come echeggia in “Tienimi terra”. Terra difficile da vivere e da lasciare. Terra e terre per cui e su cui morire. C’è una frattura narrativa in questo disco d’amore per la donna e sono le canzoni dedicate alla terra dove si muore. Incudine scrive “Cesarino” ricordando la morte di un bambino a Recco, vittima collaterale del bombardamento alleato del ’43 sulla città ligure, ed è un cunto struggente, bellissimo. E scrive “Giochi di bambine”, inventandosi un gioco tra bambine dentro un rifugio e in mezzo alla guerra: “noi tiriamo briciole di pane/ e i cattivi le bombe con il fuoco” in onore e in ricordo di tutti i bambini massacrati in queste ore, in questo tempo infame.

Un tempo che lascia alle favole lo spazio della fantasia “Portami con te nelle favole/ c’era una volta/ e ci sarà mille volte/ l’alba, il giorno e la notte”

Scorre il tempo e scorrono le dodici tracce di “Il senso della misura” nel giradischi delle emozioni di chi ascolta. Basta poggiare idelamente la testina su una di queste canzoni per sentirle roteare tutte assieme nel cuore e affiorare tutte assieme in gola, poi cantarle una per una. Se fosse una narrazione “Il senso della misura” sarebbe un’opera circolare: s’apre e si chiude con una dichiarazione d’amore. Un girotondo, una festa dei sensi, dei sentimenti e della musica. S’apre e si chiude con una dichiarazione d’amore. Da Incudine a noi. Da noi a Incudine.

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Daniela Sessa

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