Perche’ leggere “L’estate” di David Comincini

Si tratta di un racconto di formazione o, se si vuole, di iniziazione alla vita, che ha per protagonista Marco, giovane docente bolzanino di filosofia

David Comincini ha studiato filosofia nelle Università di Innsbruck e di Bologna. Si è specializzato in Filosofia della scienza e ha già dato alle stampe volumi e saggi in argomento. Come il protagonista del suo racconto, L’Estate, nelle librerie per Manni editori (per ordini: info@mannieditori.it, pp. 92, euro 15,50) vive a Bolzano. Il testo è connotato da prosa sobria, snella, che agevola la lettura e da rara capacità affabulatoria, in quanto le atmosfere minimaliste, volutamente suscitate da Comincini, coinvolgono il lettore nel narrato. Si tratta di un racconto di formazione o, se si vuole, di iniziazione alla vita, che ha per protagonista Marco, giovane docente bolzanino di filosofia. Se abbiamo ben compreso, almeno in molti aspetti del volume, Comincini fa i conti con se stesso, viene ai ferri corti con la sua vita che, come tutte le vite autenticamente vissute, cresce e si sostanzia anche in forza di delusioni, fallimenti e ri-partenze.

Ex-sistere, lo stare fuori dal principio, implica la “cerca”. Questa, a volte, può farsi ossessiva. Sono i casi della vita a imporlo, come mostrano le vicende in cui è coinvolto Marco. Il loro “accadere”, a-teleologico, senza fine o scopo, si iscrive nel registro della natura-physis, fondo abissale cui il protagonista guarda, a volte trovandovi conforto contemplativo, e dal quale, in altri casi, non trovandovi risposta, si ritrae. La natura, infatti, è pura oggettività silente, così la intese il Leopardi delle Operette morali e così la intesero i giovani della Neue Sachlichkeit tedesca, all’inizio del secolo scorso. Il volume, non casualmente, è stato finalista al «Premio Majella 2024» per la narrativa naturalista. L’incipit di L’Estate è, sostanzialmente, la presentazione del “mondo” di Marco, della sua scuola, dei docenti e dei discenti impegnati in una partita di calcio di fine anno, di Giada, con la quale il protagonista intrattiene una liaison, del padre silenzioso con il quale il protagonista vive un rapporto difficile ma profondo, costruito sui non-detti. L’anno scolastico è terminato: Marco si reca a Bologna a trovare il prof. Renzulli, relatore della sua tesi di laurea, che gli propone di scrivere, per una rivista, un saggio dedicato a un volume di teoria della conoscenza di impostazione “realista”, al fine di confutarlo. Il giovane, allo scopo, si reca nell’avito casale sito a Borgo Chiabella, in Umbria, dove in piena solitudine, spera di recuperare la propria vena creativa, smarrita nel corso degli anni.

Qui è distratto dal rigoglio della natura estiva, dal gorgoglio notturno dei barbagianni, cui fanno seguito improvvisi silenzi, dalla silente presenza della madre e da  quella, intrigante, di una vicina, Micol. Questa, con Javier, è intenzionata ad aprire un agriturismo. Marco riesce solo a prendere appunti per il suo scritto e si dedica ad attività manuali. Compie un’escursione su una collina limitrofa. Giunto sulla sua sommità: «Proprio un paesaggio che è bello contemplare, pensa Marco» (p. 33). I mutamenti climatici sono registrati con estrema attenzione nel narrato: «la pioggia […] a tratti si fa sferzante, sbatte a folate violente sui vetri delle finestre socchiuse, gorgoglia a rivoli lungo i coppi del tetto» (p. 36). Il protagonista, inoltre: «Si perde ad ascoltare i rumori della vita selvatica che gli si svolge attorno, celata dalle ombre […] Uno schiocco ogni tanto, isolato, lo ridesta al presente» (p. 37). Il contatto con la natura lo precipita in una dimensione caotica: «Come avere il controllo su tutto questo, cazzo! Cazzo! » (p. 41). Decide così di ripartire. A Bolzano, incontra Giada, nel frattempo tornata da una vacanza in Sicilia. Anche la ragazza, cerca di dare senso alla propria vita e comunica a Marco la sua intenzione di trasferirsi, di lì a qualche giorno, a Londra. Marco è sotto choc: «la luce spettrale là sotto lo fa sentire ancora più solo» (p. 49). La via alla Persuasione, lo aveva compreso Michelstaedter, la si percorre da soli, non è via “da omnibus”. Decide di accompagnare Giada a Milano, il giorno prima della partenza da Malpensa. Un viaggio fatto di silenzi e di complicità in uno, in cui il traffico autostradale e il paesaggio urbano non fanno che ribadire la dimensione caotica della nostra esistenza.

Nei giorni precedenti si era finalmente rimesso al lavoro. Il saggio era ormai terminato. Aveva incontrato suo padre che, con le sue parole, lo aveva fatto sprofondare in uno stato di prostrazione. L’anziano genitore gli aveva comunicato di essere gravemente ammalato. Marco si precipitò in montagna e una volta raggiunta la vetta solo lì, nel silenzio, riuscì a recuperare uno sguardo distaccato sulla sua condizione e sulla vita: «finalmente scoppia a piangere, a dirotto, senza freni» (p. 63). Decide di tornare da Micol, al suo mondo selvaggio. Non la troverà. Al suo posto, il rozzo Loris e Javier con i quali trascorre due serate all’insegna del vino, durante le quali apprende che la giovane è tornata (forse) a Berlino. Soprattutto capisce che: «l’Umbria, nel vuoto rimbombante della sua estate […] è come uno spazio che gli si allarga dentro» (p. 66). Si proietta verso la contemplazione: «ma non gli riesce di afferrarla. Non è sereno» (p. 72). La possibilità di rivedere Micol lo aveva spinto laggiù, ma la giovane si presentava al suo ricordo come: «una porta buia che Marco non è stato ancora in grado di aprire» (p. 80), perché, come la vita, non poteva venir costretta in formule date. Durante l’ultima escursione in collina, in preda a conati di vomito dovuti alla sbornia della sera precedente e alla buia ossessione che gravava su di lui, visse un’esperienza rivelativa: «Sente lo scroscio leggero dell’acqua più in basso: nient’altro. Non c’è nulla!Nulla!» (p. 89). Poi, d’improvviso, il terrore provocato dalla carica di un cinghiale. Un urlo strozzato esce dalla gola di Marco: «L’animale si blocca in ascolto. Il tempo per un istante rimane sospeso […] poi si volta e scompare inghiottito nel fitto del bosco» (p. 90). Ciò che resta è: «Un dolore senza possibile remissione» (p. 90).

Che fine ha fatto il saggio di Marco? Rifiutata dal docente la pubblicazione, ricompare, nell’epilogo, sulla rivista con la firma di Renzulli. Cosa ha compreso Marco nei boschi, in particolare durante l’epifania del cinghiale? Cosa ha compreso attraverso le vicissitudini del suo saggio? Semplicemente ciò che compresero Leopardi e Shakespeare: le cose non sono mai quel che dicono di essere. La loro positività è maschera momentanea di una negazione originaria, del nulla di ente, del ni-ente. Le cose non sono come sembrano e neppure sono come vorremmo che esse fossero (prof. Renzulli). La vita è caos dionisiaco, al quale si può alludere solo se animati da sapere nesciente, da dotta ignorantia. L’apodittica arroganza epistemica, pensa di sciogliere, in giudizi e sillogismi, l’enigma dell’esistere, ma non ne afferra il senso ultimo, semplicemente perché non c’è. Questa, forse, è una chiave di lettura possibile delle pagine di, L’Estate. Scrivo forse, con sospensione di giudizio, in quanto uno scettico non può esprimersi diversamente. 

  

Giovanni Sessa

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