L’ideologia del progresso in Alain Benoist

Il saggio di Lorenzo Cafarchio estratto dal volume Politica, metapolitica e antipolitica per Edizioni sindacali

Alain de Benoist

Pubblichiamo un estratto di “Politica, metapolitica, antipolitica, Alain de Benoist e le nuove sintesi” per (Edizioni sindacali, con saggio introduttivo di Michele Onfrey, acquistabile qui) ,  prezioso per conoscere il pensiero dell’intellettuale non conformista francese. Ringraziamo l’editore per l’autorizzazione alla pubblicazione. (g.a.)


L’ideologia del progresso afferma che tutti i popoli sono sollecitati a pervenire allo stesso tipo di società, passando attraverso gli stessi stadi” – AdB

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AdB: “Lei trova scandaloso che gli uomini superino sé stessi?”


BHL: “Ma questo vuol dire coltivare il senso dell’eroismo, il culto dell’energia, ovvero il culto della forza?”


AdB: “Lei è per il culto della debolezza?”


BHL: “Eventualmente sì, perché culto della debolezza significa aiutare gli oppressi e tendere loro la mano”

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Come abbiamo fatto a passare dalla visione di Filippo Tommaso Marinetti capace di invitarci ad avere “fiducia nel progresso, che ha sempre ragione, anche quando ha torto” a quella di Aldo Palazzeschi desiderosa di dirci che “tutto il progresso dei popoli e delle loro auguste e seducenti civiltà, altro non sarebbe che un cammino all’indietro, verso il peggio”? Abbiamo attraversato una gestazione secolare, un tramonto che alla nuova alba ci ha visto risvegliati trovando nella società il riflesso del passato. Alain de Benoist è un autore che ci parla innanzitutto dalle librerie, dagli scaffali e spesso, anche, attraverso gli istanti. Anni ‘60, ‘70 e l’egemonia culturale è al centro del tavolo delle idee di oggi e di quelle di domani. Ma a chi importa? Ad AdB in primis. Il testo Le sfide della postmodernità. Sguardi sul terzo millennio (Arianna Editrice) è datato 2003 eppure ci fornisce le avvisaglie del tempo che viviamo. E l’architrave attorno a cui riflettere in questa sede. Prima di entrare nel merito, di sbirciare nel futuro, poniamo l’accento sulla copertina della raccolta di saggi. La scelta ricade su una delle foto più iconiche degli anni ‘80, la cover del disco dei Depeche Mode A broken frame. Sono ispirazioni russe, staliniste, il ricordo della mano di Kazimir Malevich per questa falce impugnata in un campo di grano con il cielo nefasto sopra il soggetto dello scatto, girato di spalle, ma splendente sul fondo. In un avvenire sempre più lontano dalle battaglie del quotidiano, ma ancora una volta illuminato.

De Benoist, come detto, riflette sul tempo in cui siamo immersi in particolar modo nel capitolo intitolato Breve storia dell’idea di progresso. Le parole mutano, cambiano forma e vengono forgiate da chi le pronuncia. Lo insegna Majakovskij, ma innanzitutto è maestro di quest’arte Andrea G. Pinketts. “Faccio lo scrittore. Quando una parola mi serve e non c’è me la invento”. Bene, l’ottuagenario protagonista di questa nostra tavola d’intenti è l’intellettuale, non solo scrittore, che toglie l’eccesso dai vocaboli e ci mostra la loro forma originaria. “L’idea di progresso appare come uno dei presupposti teorici della modernità”. La religione della civiltà occidentale è racchiusa nella voce del perfezionamento. Non esistono altre soluzioni: o miglioramento o morte (forse meglio dire cancellazione). La forma di tutto questo prende vita nel 1680 nella disputa tra Antichi e Moderni che vede contrapposti Terrasson, Perrault, l’abate di Saint-Pierre e Fontenelle, per poi proseguire su iniziativa di una seconda generazione che comprende Turgot, Condorcet e Louis Sébastien Mercier. Sono tappe che si susseguono e ci dicono che l’epoca successiva è sempre migliore di quella passata. Un cambiamento orientato verso il meglio. Alain de Benoist ci spiega quali sono le tre idee chiave di questa teoria:

1) Una concezione lineare del tempo e l’idea che la storia ha un senso orientato al futuro;

2) L’idea dell’unità fondamentale dell’umanità, chiamata nella sua totalità a evolvere nella stessa direzione;

3) L’idea che il mondo possa e debba essere trasformato, il che implica che l’uomo s’impone come padrone sovrano della natura.

Il motore di questa visione risponde al nome di Cristianesimo. Del resto è proprio la Genesi che assegna “all’uomo la missione di ‘dominare la terra’”. Nell’eterna ricorsa sulla quale ci siamo posti l’età dell’oro non è più dietro di noi, ma viene posizionata alla fine della storia. Franco Battiato, nel brano Magic Shop, ci ricordava che la già citata età dell’oro non è forse “appena l’ombra di Wall Street?”. La falce, quella della copertina, invece “non fa più pensare al grano / Il grano invece fa pensare ai soldi”. Viene per questo escluso l’eterno ritorno, tolta la possibilità nella ruota del progresso della concezione di ciclicità della storia. Addio alla visione di Guillaume Faye e Giorgio Locchi sulla periodicità della ripetizione (mai uguale, ma sempre uguale). La formulazione moderna dell’evoluzione arriva direttamente dal Rinascimento. Francis Bacon (nel testo Francesco Bacone) è il primo in assoluto a usare la parola progress “in un senso temporale e non più spaziale”. Ed è qui che l’uomo “sperimenta la convinzione che, grazie alla ragione, può affidarsi solo a sé stesso”. Un oggetto racchiude meglio di ogni altro questo ragionamento: l’orologio. Per citare Jacques Le Goff il “tempo dei mercanti” ha sostituito il “tempo dei contadini”. Come ricordato in un testo recentemente tradotto dalle Edizioni Sindacali, Èdouard Berth e il sindacalismo rivoluzionario, AdB ci rammenta come per Georges Sorel e per i suoi accoliti la teoria del progressoaltro non era che “dottrina borghese”. Nonché il campo da gioco della storia dove trionfano o perdono le visioni e le azioni. La linea direttrice indica l’avanti, una dimensione dove ogni giorno sappiamo qualcosa di più di ieri e dove tutto andrà sempre meglio. O almeno così vogliono farci crede. Non più quindi “nani sulle spalle di giganti”, per dirla alla Bernardo di Chiravalle, ma con una nuova autorità sugli Antichi. La ragione più di ora è solo domani.

L’idolatria del novum “questa sete di nuovo (…) diventerà rapidamente una delle ossessioni della modernità”. Qui l’avvenire è già preavviso venturo. Troviamo, così, sul nostro cammino le avanguardie e il ritorno a Majakovskij. Per il cubofuturista il futuro è l’unica religione da riconoscere in un’accezione positiva, questa volta, dove conta solo l’andare in avanti per costruire il nostro avvenire come europei. Di contro abbiamo “la massa totale del genere umano” che “marcia verso una sempre più grande perfezione”, ricordando Turgot e Condorcet, parallelamente l’uomo sente di avere bisogni sempre da rinnovare, ma anche di “essere indefinitivamente perfettibile”. E il paradosso è proprio dietro l’angolo. L’umanità per affrancarsi da ciò che le impedisce di progredire potrebbe da sola “intralciare l’irresistibile marcia in avanti del progresso: i ‘pregiudizi’, le ‘superstizioni’, il ‘peso del passato’”. Per questo chiunque ostacoli “il” percorso deve essere soppresso. Così l’etica assume le caratteristiche ultime di una scienza. Nietzsche, come ricorda Alain de Benoist in Minima moralia (Bietti), tracciando la sua “genealogia della morale” indica “di valutare il senso dei valori offerti da questa ‘morale’ e invita a giudicarla in funzione del tipo d’uomo che promuove”. Luc Ferry sottolinea il fatto che “non si tratta più, come per gli Antichi, di realizzare la propria natura, ma, nella maggior parte dei casi, di opporsi a essa (…), un distacco nei confronti della propria natura egoistica”. Il filosofo di Röcken ci sprona a essere ciò che si è, il progresso no. Proprio il contrario. Superiore e inferiore risultano totalmente incomprensibili per i contemporanei che, fin da bambini, sono focalizzati sullo sbarazzarsi di ogni forma di pregiudizio in un’ottica di livellamento. Questa deriva era già stata intuita da Alexis de Tocqueville, nel testo La democrazia in America, che metteva in guardia dall’uguaglianza come portatrice di conformità sociale. Per far convivere ogni aspetto, al meglio, il gigante calderone posto sotto i nostri piedi segue la ricetta di Edmound Jouve, in Le droit des peuples, dove per rispondere alle esigenze della democrazia limitata e della sopravvivenza del capitalismo, come ingrediente richiede solo l’aggiunta de “l’ideologia dei diritti dell’uomo”. Ragioni prettamente individuali che affermano non l’identità, ma la differenza tra uomini. Bisognerebbe, a questo punto, aprire una parentesi dai contorni infiniti sul concetto di libertà – pensiero profondamente europeo – ma ci basta tenere a mente quanto indicato da Pierre Chanu. Avere “la capacità di dire noi, secondo un sentire autentico, e così tenere testa al dispotismo dell’io.  

La gioia eccola. La marcia inarrestabile verso di essa come “completamento della felicità morale”, il progresso materiale causa, di conseguenza, il progresso morale. Proprio per questo “l’azione politica deve cessare di essere un’arte, governata dal principio di prudenza, per diventare una scienza, governata dal principio di ragione”. Il libretto di istruzioni lo forniscono Auguste Comte e Saint-Simon. AdB pone le basi dell’attualità dove “il progresso è indefinito” oppure “sfocia in uno stadio ultimo o terminale che sarebbe una novità assoluta, o come la restituzione più ‘perfetta’ di uno stato anteriore o originale: sintesi hegeliana, società senza classi che restituisce il comunismo primitivo (Marx), fine della storia (Fukuyama), etc…”. In cosa sfocia questo perfezionamento? Una nebbia indefinita di miglioramenti senza sosta per i liberali, una fine felice e ben determinata per i socialisti. L’atteggiamento di partenza, a prima vista contraddittorio, non è certamente il più realista dei due come la routine odierna vorrebbe imporci. Ora sono svariati i quesiti che il protagonista di questo convegno, giustamente, pone sul tavolo. Andiamo a riepilogarli:

– Il progresso è una forma incontrollata che interviene da sola, oppure gli uomini debbono intervenire per accelerare o sopprimere ciò che lo ostacola?

– Il progresso è regolare e continuo, o implica salti qualitativi bruschi e rotture?

– Il progresso può vedere un’accelerazione del suo avanzamento intervenendo su di esso oppure si rischia, così facendo, di ritardare la sua realizzazione?

Lo scenario delineato ci mostra come la parola “progresso” e quella “civiltà”, quindi, non sono altro che sinonimi. Un abbraccio in un’ottica di legittimazione della colonizzazione di cui dovremmo beneficiare. Un mix dove parte del collante viene dall’evoluzionismo darwiniano. Il risultato? La selezione dei più adatti “in una generalizzata visione concorrenziale”. Già da Rosseau però l’idea di progresso conosce le sue prime critiche, ma come recita AdB la “nozione di decadenza (…) appare altrettanto poco oggettivabile di quella di progresso”. Autori come William Pfaff vedono nell’evoluzione senza fine pena mai una “idea morta” e questa visione colpisce fasce sempre più ampie della popolazione. La società attuale, la migliore possibile, in realtà è vista come la sola attuabile e per citare il filosofo sloveno, che piace alla gente che piace, Slavoj Žižek è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Il domani, in sostanza, ha smesso di cantare. “Si vede bene che l’urbanizzazione selvaggia ha moltiplicato le patologie sociali, e che la modernizzazione industriale si è tradotta in una degradazione senza precedenti”. I movimenti ecologisti, questo viene scritto ben prima dell’avvento della ormai dimenticabile Greta Thunberg, denunciano le “illusioni del progresso” e il massivo sviluppo della scienza – vaccini docet – che “non è più percepita come qualcosa che contribuisce sempre alla felicità dell’umanità”. Confidando in Proudhon diciamo: “Chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno”. Eppure, il pericolo del Medioevo è dietro ogni angolo e la classe politica, in special modo, ammonisce contro gli ipotetici “uomini del passato”. In questo modo “l’orientamento verso il futuro resta ugualmente dominante”. L’aspetto focale è che la libertà fa rima con l’eradicazione delle “appartenenze organiche” senza dimenticarsi di gettare via le “tradizioni ereditate dal passato”. Per questo “ogni appartenenza o singolarità collettiva è rappresentata come una reclusione carceraria, finzione ingannevole o ‘costruzione’ illusoria e ogni preoccupazione di preservarle come rientrante nell’ambito del ‘fanatismo’ o del ‘fondamentalismo’”. Tempo fa Vincent Peillon, all’epoca ministro dell’istruzione francese (periodo 2012-2014 sotto le effigi del Governo Hollande), disse che per “dare libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare l’alunno a tutti i determinismi, familiare, etnico, sociale, intellettuale”. Questo il sunto ultimo dell’ideologia dei diritti dell’uomo, concetto al quale Alain de Benoist ha dedicato un testo – tradotto in italiano dalle edizioni Settimo Sigillo nel 2004 – dal titolo Oltre i diritti dell’uomo. Per difendere le libertà. Ogni scelta ammessa è quella che viene fatta in funzione di sé stessi – my body, my choice – tutto il resto viene squalificato come fallace.

È il mito moderno della creazione di sé attraverso sé e a partire da niente, che implica al contempo il rifiuto della ‘natura’ e di ogni dato ereditato. Questa libertà concepita come inizio assoluto, senza essere condizionata da niente, trasferisce all’uomo una prerogativa un tempo attribuita a Dio”, ecco quanto riassunto da Alain de Benoist in un articolo tradotto una decina d’anni fa sulle colonne di Diorama Letterario. In fondo come dimostrato da Latouche, Rist e molti altri la teoria dello sviluppo non è altro che una credenza. Abbandonata questa credenza la faremo finita con l’ideologia del progresso.  

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Si sarebbe davvero uguali solo essendo identici” – AdB

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Mischiare tutti con tutti e tutto con tutto, questa è oggi la forma terminale dell’indistinzione” – AdB

Lorenzo Cafarchio

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