Artefatti. La musica italiana non è morta, ecco Patriottismo Psichedelico dei Pcc

Donato Novellini: "Zecchini è il nostro Limonov sotto copertura"

Occorre smentire risolutamente la sentenza di certi vecchi barbagianni, accigliati apocalittici e nere vestali, secondo cui la musica italiana è morta, poverina, uccisa dai “talent”, tumulata dai produttori “trap” mentre a darne l’estremo saluto s’industriano senza posa monotone radio-simpatia, diffondenti a rotazione una decina di brutte canzoni commerciali da mattino a sera. No, quello è il mainstream signori miei, intrattenimento seriale sempre più scadente per masse lobotomizzate e forse c’è sempre stato, benché all’orecchio meno fastidioso d’oggi. Basterebbe esercitare curiosità e libero arbitrio, cambiare stazione radiofonica e spegnere la tv ad esempio – diversamente si tratta di pigrizia o masochismo – e fare un minimo di ricerca nel sottobosco indipendente per trovare qualche soddisfazione; tipo Patriottismo Psichedelico (Musica di un certo livello, 2024), cd rilasciato da Post Contemporary Corporation, sigla multimediale capeggiata con maschia volitività da quel folle aedo, da quel geniale guastatore che corrisponde al nome di Valerio Zecchini.

O Zekkini? O il Falco? Come quello stilizzato che capeggia sulla copertina dell’albo, dorato su sfondo blu; edizione in digipack pregevolmente curata, arricchita da quattro cartoline patinate raffiguranti altrettante opere concettuali dello ieratico inventore del motto “Vivere è una vergogna” nonché fautore dell’atto d’odio per Bologna. Da bolognese, s’intende. Per quanto concerne il contenuto, già dal primo ascolto risulta difficile restare cheti e indifferenti a fronte di un pastiche ipertrofico di tal fatta. Piglio declamatorio, bellicoso sprezzante sbeffeggiante sabotatore, qua e là salmodiante, sempre e comunque teso a far pappa di luoghi comuni, banali stereotipi di sinistra (Bob Marley era una brutta persona) ma soprattutto di destra (Heimat), offrendo all’ascoltatore un sabba visionario, realmente avanguardista, anzi pionieristico, tabula rasa definitiva riguardo all’andazzo generale. Spicca per potenza di fuoco verbale la tetragona Pellegrini dell’innocenza (esortazione agli straccioni), invettiva beffarda ma nondimeno epica, di chiara ispirazione pamphlettistico-celiniana, traccia che in qualche modo si pone in continuità con quel “Pubblico di merda!” dei seminali Skiantos. E difatti c’è pure Bologna nel ricettario bilioso di Zecchini, La giornata di un nevrastenico posta in apertura, trasporta Dino Campana alla categoria della contemporaneità, dando senso a quel sarcastico motteggio social – “Reato di Bologna” – che sbertuccia la sciatta condotta della gioventù studentesca locale.

Musicalmente nel disco c’è di tutto: gommosa Disco-Funky, easy-listening da crociera, un sassofono à la Fausto Papetti, lounge Menarca (qualcuno ricorda Antonio Facci Tosatti?), scampoli Tuxedomoon, cori in purezza che rimandano ai Laibach più enfatici, stantuffi industriali, basculanti dadaumpa, derive folkloriche messe in acido, brume noise, violoncello Bach impazzito, elegiaci esotismi da Kuala Lumpur, carillon lapponi, deliri iberici, punk sui generis ma soprattutto tanto post: qualsiasi cosa; eppoi ci sono le chitarre lancinanti, spigolose, di Dario Parisini (Bentivoglio, 1 dicembre 1966 – Bologna, 9 giugno 2022), co-fondatore di Post Contemporary Corporation, anima ispirata e spirata degli imprescindibili Disciplinatha; viene un soffio al cuore, come in un film di Louis Malle, nell’udire quelle che potrebbero essere le sue ultime registrazioni di chitarra elettrica, quantomeno ascoltabili su un supporto fonografico.

 

Affinità e divergenze, soprattutto divergenze, conflittualità diverbi polemiche parapiglia, cattivi umori, insofferenze deflagranti in astrali strafottenze messe a bordo di treni cosmici diretti chissà dove, ad Agharti probabilmente. C’è questo iato apolide in Patriottismo Psichedelico, il capriccio aristocratico di rompere il cazzo, la volubilità dell’estetica preferibile all’adesione ideologica, tutto l’istinto di capire al volo dove sta il marcio “moderato” per farne baccanale. Solipsismo e macerie. Volitivo e marinettiano, capace di giocare a pingpong tra ortodossia e iconoclasta, il Falco sprona sbeffeggia schiaffeggia sproloquia e sobilla, pregno di monacale vitalismo, di superomismo futurista, di sottoumanismo dostoevskiano e di sincretici misticismi rivolti a Oriente; pare ormai irrimandabile l’atto vano di guastare il quieto vivere borghese, il capriccio di detestare i frusti mimetismi, le frasi fatte, il pappagallesco cianciare; egli lo fa con iperboli spiazzanti, osando l’inosabile, ovvero declamando tutto l’indicibile disprezzo per l’attuale consorzio umano – “Le scaffalature del buon senso”, “E nessuno, nessuno che osi più contestare le consuetudini e i gendarmi delle consuetudini” – ma senza assumere posizioni moralistiche o conservatrici, tantomeno progressiste: l’esatto contrario, semmai riandando a quel beffardo “siete morti” che Carmelo Bene rivolse al pubblico del Costanzo Show, riverberante fino ai giorni nostri. Insomma, Zecchini è il nostro Limonov sotto copertura, un poeta risolutamente antipoetico, un tipo che sarebbe il caso di tenere presente, anche per eventuali inviti ad una rissa per futili motivi, da mettere in scena a teatro in attesa di un’apocalisse qualsiasi che ancora non meritiamo.

 

 

 

Donato Novellini

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