Aziyadé è ambientato nel declinante Impero ottomano. Personaggi: un francese turcofilo, alter ego dell’autore, e una giovane circassa, alla deriva contro la trama inconsapevole della vita, a cavallo tra due continenti e tra politica e poesia.
A oltre mezzo secolo da quella mia lettura di Loti, mi chiedo se lo scrittore ritrovi attualità lungo la parabola discendente della Francia, dell’Europa e dell Occidente, sui piani demografico, economico, militare e culturale.
Infatti c’è un’accelerazione verso un futuro globale, sì, ma molto diverso da quello che la generazione di Loti e i suoi ammiratori (Gauguin, Nietzsche, Proust, France, James) potevano immaginare.
Negli ultimi decenni, ricchezze indicibili si sono spostate dall’Occidente all’Oriente, mentre nazioni come Cina, India, Indonesia e Vietnam (che Loti, da giovane ufficiale di marina, col suo vero nome di Julien Viaud, aveva conosciuto) sono destinate a raggiungere nuovi livelli di crescita e fiducia nelle loro rispettive capacità.
Nel 1923, mentre Loti moriva a Hendaye, dalle ceneri ottomane emergeva la nuova Turchia, vittoriosa e spietata nei confronti delle minoranze greca e armena (che nei suoi scritti stambulioti Loti disprezzava).
Sulle alture di Istanbul un viale, fiancheggiato da tombe e lapidi, porta dalla piazza della moschea di Eyüp all’omonima collina: qui, sulla sommità, è il piccolo caffè “Pierre Loti Kahvesi”. Da lì si domina la megalopoli: un indizio o forse un segnale, rivolto a nuove generazione di lettori, esposti ai richiami della cultura della cancellazione (o ridimensionamento) di ciò che è occidentale, sulla accettabilità dello scrittore francese, che come pochi descrisse l’atmosfera d’Oriente, fino a desiderare di farsi turco.