“Vermiglio” di Maura Delpero e l’incantesimo del reale

Il film della regista bolzanina, vincitore del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia e candidato per l’Italia al premio Oscar 2025, convince per la ricerca estetica. Ottimo Tommaso Ragno. Buono il riscontro al botteghino

IlPasso del Tonale, la montagna ora carica di neve ora brillante di verde, volti rudi di montanari, le guance rosse delle donne, i passi goffi dei bimbi sulla neve, una scuola, una taverna, interno casa. L’unico elemento non oleografico in Vermiglio di Maura Delpero sono i libri del maestro di scuola.

Una tranche de vie, direbbero i realisti della prima ora, quelli della casa del nespolo poi finiti a rubare biciclette. Ma già, in quella casa archetipo di ogni “vero” aleggiava il non luogo e il non tempo e negli occhioni lucidi del figlioletto del ladro di biciclette un invito alla commozione che lo Zeigeist dell’impegno avrebbe dovuto o potuto declinare. Invece, nella letteratura del realismo e, di conseguenza, nel cinema del neorealismo, c’è un peccato originale: il lirismo. Vuoi il paesaggio (il mare che inghiotte la barca dei Malavoglia di Giovanni Verga sbatte nell’animo degli orfani e non solo sulla sciara), vuoi l’eterno simbolo (la collina mammella di Cesare Pavese), vuoi l’irrinunciabile onirico (una per tutte la scopa su cui volano i disperati di De Sica), il realismo si carica dell’ingombro del soggettivo e non solo declina, appunto, verso il simbolismo ma si lascia accarezzare dal refolo della poesia, ben più gradevole del vento nevoso che colpisce gli scolari in fila dietro il maestro di Delpero.

 E’ tutto qui l’incanto e il limite del film “Vermiglio”, un’ibridazione tra la ricerca estetica, riuscitissima grazie alla fotografia del russo Michail Kricman,  e l’urgenza della rappresentazione di uno spaccato di Italia del 1944. Tanto che la trama, prevedibile negli sviluppi e nella conclusione, viene fagocitata dall’indugio su dettagli e particolari, su primi e primissimi piani e su riprese dall’alto, per non tacere del dialogo tra il taglio delle luci e le musiche. Né la scelta del dialetto riscatta, se mai fosse nelle intenzioni della regista, un reviviscente neorealismo, perché si risolve in filologia.  Vermiglio è un gioiello di estetica. Incanta e imprigiona. Lo spettatore viene catturato nella rete di rimandi tra il soggetto e la regia. Già a partire dall’autobiografismo che porta la regista a rovesciare nel film la memoria della famiglia bolzanina, il tema della maternità – caro alla sua filmografia da “Maternal” in poi- anche sua, fino a una sorta di orgogliosa pietas verso quell’umanità di montagna non risparmiata dalla storia.

 

Quasi al termine del secondo conflitto mondiale a Vermiglio, paesino della val di Sole nel Trentino, immerso dalla neve, torna il disertore Attilio che porta con sé il siciliano Pietro. Il paese nasconde i due disertori rompendo la ritualità di quel mondo antico, piccolo e arroccato nelle proprie certezze: la fede, il lavoro, il matrimonio, i figli. La Storia finisce per travolgere la famiglia Graziadei che già contiene in sé il germe della diversità. Ovvero Cesare, il padre e maestro interpretato magistralmente da Tommaso Ragno, l’estraneo. Lui con i suoi libri, con quel fastidio verso la sana ignoranza della comunità che in fondo dirige, con le spese inopportune per i dischi mentre la moglie ha il ventre perennemente gravido dei suoi figli (alcuni muoiono, altri sopravvivono nella totale apatia sentimentale stampata nella faccia bellissima di Ragno). Cesare è il vero disertore nonostante appaia come un padre padrone o incarni l’ennesimo letterario padre del ‘900 post freudiano. Il matrimonio di Lucia con Pietro destinato al tradimento, alla gravidanza e alla tragedia scuote il paesino. La fine della guerra riconcilia tutti tranne le donne, destinate alla rinuncia.

Vermiglio è un film antiretorico in cui il naturalismo diventa naturalezza e Delpero ha trovato nel suo secondo lungometraggio una dimensione, non ancora un’identità. La cinematografia di Delpero porta a maturazione e scioglie l’inghippo del realismo: il reale diventa sì dicibile nello spostamento simbolico, spesso bulimico, e psicologico ma i grandi temi (nel film il tema è il destino) raggelano talvolta dentro l’estetica della macchina da presa. Comprese le citazioni tra il tempo del racconto (un anno) e Vivaldi di “Le quattro stagioni”. Se il canone è “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, è pur vero che gridare all’Oscar per il film di Delpero sembra un po’ esagerato. Magari il film piacerà alla giuria degli Oscar, perché dell’Italia cinematografica resiste solo la memoria del neorealismo. Si provi a intervistare un attore o un regista di Hollywood e citeranno De Sica, Rossellini e Visconti come citano pizza e spaghetti. Intanto, il cinema italiano è diventato molto altro.  “Vermiglio” è un film ben fatto ma pecca nel risolvere la coralità in affresco. Compreso l’affresco sulla condizione femminile, rispetto alla quale Delpero, con il suo linguaggio, ha in sorte di aver portato sui grandi schermi in tempo per la candidatura all’Oscar: altrimenti, chi avrebbe fermato Paola Cortellesi e il suo capolavoro di retorica?

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Daniela Sessa

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