Aspide. Samurai tra filosofia fumetto e pop

“Samurai d’inchiostro”, edito da Profondo rosso, curato da Riccardo Rosati e Carlomanno Adinolfi, offre una visione tradizionalista-ribelle

Samurai d’inchiostro, di Rosati e Adinolfi

Recentemente edito da Profondo Rosso, “Samurai d’inchiostro” nasce come conferenza, incontro di approfondimento sugli archetipi della cultura giapponese ricorrenti in manga e anime, che avrebbe dovuto tenersi a Roma, a CasaPound, proprio in occasione dell’esordio della pandemia. Le riflessioni dei relatori, seppur eclettiche e caratterizzate da approcci marcatamente differenti tra loro, si sono dunque trasformate, grazie al labor limae dei due coautori, Riccardo Rosati e Carlomanno Adinolfi, in un volumetto più organico e coerente che dà conto non solo della visione filosofica che informa la figura e l’agire del samurai di carne e d’inchiostro, ma anche dell’accoglienza ricevuta dal fumetto giapponese in occidente e dei suoi recenti sviluppi più “pop”.

Se, quanto al primo aspetto, il risvolto forse più interessante e insospettato (benché evidente nei fatti – ma d’altra parte Saint-Exupéry ben sapeva che spesso “l’essenziale è invisibile agli occhi”, e specialmente agli occhi europei degli ultimi cinquant’anni) è quello, milleriano, secondo il quale l’archetipo che ha avuto “successo” nel Sol Levante è stato quello del tradizionalista ribelle, di un Mishima-Wilde che compensa il tradizionalismo con l’iconoclastia, riuscendo così, di fatto, a salvaguardare la tradizione, a differenza di coloro che lottano per conservarla ad ogni costo, soffocandola, quanto alla men che tiepida accoglienza occidentale gli spunti offerti sono parecchi. 

In particolare, merita qualche considerazione l’acuto paragone di F. L. Schodt con i cowboy e l’epopea del western: ciò che di più simile all’epica esiste in America e, per riflesso, in Europa. 

Se, infatti, il cinema italiano ha tentato di fare propri gli archetipi del western, dando vita a un vero e proprio sottogenere, lo spaghetti-western – e, a onor del vero, un simile tentativo, subito abortito, è stato fatto anche, ai tempi dell’Unità d’Italia, per le atmosfere gotiche di E. A. Poe, benché gli stessi autori di “spaghetti-gothic” come i fratelli Boito e Baccio Maineri abbiano ben presto “sconfessato” quel genere di letteratura d’evasione in favore di un maggiore impegno nel processo di unificazione nazionale – uno yakisoba western non è mai esistito, eccezion fatta per un unico esperimento del 1969, “Matanza, il volto della morte”, e per il “Sukiyaki western Django” del 2007 di Takashi Miike, volontario omaggio, già nel titolo, proprio al nostro spaghetti-western. 

Ciò dimostra che la filmografia giapponese si è concentrata piuttosto sul declinare in chiave moderna e perfino postmoderna (si pensi agli incroci tra samurai e cyberpunk) i propri archetipi mitici e folkloristici, piuttosto che importarne di nuovi dall’estero, cosa che emerge chiaramente anche dall’approfondimento di Cristina Frattale Mascioli sul cinema di Hayao Miyazaki. Infatti, anche le tematiche “ambientaliste” di “Principessa Mononoke” e di altri suoi lungometraggi, come “Nausicaa della Valle del vento”, non prendono le mosse da un greenwashing ecologista all’occidentale, bensì da una prospettiva “animista” che appartiene al substrato profondo della religiosità giapponese e che a contatto con la Natura riemerge carsicamente, rinfocolando un innato legame con il Sacro. 

E, sempre per quanto riguarda l’accoglienza dei manga e degli anime, questa volta da parte della (sedicente) intellighenzia italiana, è ricco di spunti il saggio di Enrico Petrucci. A mo’ di sintesi dell’evoluzione storica in questione, però, può risultare efficace il titolo dell’ultimo volume della serie “Chanbara” di Recchioni/Accardi: “Di uomini e d’orchi”. Già, perché, così come un certo centrodestra bigotto ha letto tra le righe di alcune scene un’istigazione alla pedofilia e ha invocato spesso la censura degli anime più crudi o espliciti, una certa sinistra cattedratica, di nuovo, come per i cowboy e i film di Clint Eastwood, ha visto nei samurai e, più in generale nei prodotti dell’animazione giapponese, alternativamente “roba per bambini” e “roba di destra”, che strizzava l’occhio al culto dell’uomo forte e, quindi, al fascismo: roba da orchi! La solita superiorità morale e intellettuale sbandierata, insomma, che sarà superata solo dopo decenni e, peraltro, solo in nome del mercato, quando piattaforme come Netflix e Disney+ finiscono per offrire al pubblico un discreto numero di prodotti ispirati al Giappone feudale e ai ronin, da “Blue Eye Samurai” a “Shogun” a “Yasuke”. E il potere del Giappone tradizionale è ancora oggi tale che perfino gli immancabili amorazzi e le trite tematiche di “femminismo” e “razzismo” (il protagonista di “Yasuke” è un samurai di colore alla corte di Oda Nobunaga, quello di “Blue Eye Samurai”… beh, non ve lo diciamo, per non rovinare il colpo di scena!) assumono, nella sua cornice, una sfumatura più delicata, ad un tempo vitale e composta.

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Camilla Scarpa

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