Focus. Israele, Gaza e Libano: la guerra del peccato e il mercante di Venezia

In inglese le parole "Sin War" significano "guerra del peccato": espressione, questa, che ci offre una sorprendente opportunità di riflessione

“Se un ebreo fa un torto a un cristiano, a che si riduce la mansuetudine di costui?

Mappa medio oriente n guerra per Avvenire

Alla vendetta.

E se un cristiano fa un torto a un ebreo, quale esempio di sopportazione gli offre il cristiano?

 La vendetta.

La stessa malvagità che voi mi insegnate sarà da me praticata.

E, per quanto difficile, andrò oltre l’insegnamento.”

(William Shakespeare, “Il Mercante di Venezia”, atto III scena 1)

 

L’eliminazione di Yahya Sinwar, principale leader politico e militare di Hamas, rappresenta certamente un successo simbolico per Israele, ma non pare destinato a modificare a livello strategico le sorti del conflitto.

In inglese le parole “Sin War” significano “guerra del peccato”: espressione, questa, che ci offre una sorprendente opportunità di riflessione, in quanto potrebbe costituire una rappresentazione simbolica della natura morale e spirituale del conflitto in corso. La “guerra del peccato” ci suggerisce infatti l’idea che entrambe le parti siano intrappolate in un ciclo di violenza alimentato da rancori, ingiustizie e antiche rivendicazioni. In questo senso, la guerra non è solo un confronto materiale fra eserciti e milizie, ma un continuo conflitto morale, in cui il confine fra giusto e sbagliato – fra “bene e male”, nelle stesse parole di Benjamin Netanyahu – diviene in realtà sempre più sfumato. E nel quale i contendenti rappresentano al tempo stesso il “bene” (per sé stessi) e il “male” (per i rivali): non troppo diversamente, verrebbe da dire, da quanto intende suggerirci la narrazione ufficiale, sia occidentale che russa, della contemporanea guerra d’Ucraina.

Nel caso del conflitto israelo-palestinese, “Sin War” indicherebbe allora che questa guerra non riguarda solo il controllo di un territorio o il diritto all’autodeterminazione, ma la lotta per la stessa anima dei popoli coinvolti. Entrambe le parti subiscono gravissimi danni non solo materiali, ma anche morali: la guerra continua infatti ad alimentare odio, divisioni e sofferenze che, nel lungo termine, corrompono il tessuto sociale e umano, fino a causare l’assoluto degrado etico di un angolo della terra considerato sacro dalle tre religioni monoteistiche.

Ecco perché ho voluto aprire queste brevi riflessioni con un brano de “Il Mercante di Venezia”, opera in cui William Shakespeare affronta in profondità le tematiche della giustizia, della vendetta e del pregiudizio. La complessa figura dell’usuraio ebreo Shylock, al tempo stesso vittima e carnefice, evidenzia come il pregiudizio e la discriminazione possano generare vendetta, ma anche autogiustificazione: avendo subito tante violenze, afferma in sostanza il protagonista, ho titolo a infliggerne agli altri anche in quantità maggiore. Israele si è di fatto comportato così, avendo considerato il massacro del 7 ottobre (e, in precedenza, tutte le terribili sofferenze subite dal popolo ebraico) come una sorta di “via libera” per ritorsioni sempre più dure, in una proclamata ricerca di giustizia che si trasforma in indicibile violenza. La lotta per il “debito” non saldato, oggetto del dramma shakespeariano, può allora essere vista come metafora del lungo conflitto israelo-palestinese, in cui entrambe le parti sentono di avere una legittima rivendicazione, ma ogni soluzione diventa impossibile, come il tentativo di Shylock di ottenere il suo “pound of flesh”. Una tematica, questa, fra l’altro magistralmente affrontata sul grande schermo da Steven Spielberg, nel suo “Munich” del 2005.

E ben più di una libbra di carne è stata finora reclamata e ottenuta dalla “guerra del peccato”: per ultima, la carne dello stesso Yahya Sinwar, di cui la violenza del nemico – compulsivamente ritrasmessa dai social – ha fatto scempio. Una dura vendetta, ancora, per le molteplici, orribili azioni da lui commesse contro Israele.

Ma il conflitto tra Gerusalemme e i suoi nemici ha ormai assunto una dimensione che potrebbe mettere in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico, non tanto sul piano militare quanto su quello politico, sociale e morale. In questa guerra, Israele ha infatti del tutto abbandonato uno dei suoi principi strategici originari, che gli imponeva di evitare, ove possibile, conflitti prolungati e su più fronti, date le sue ridotte dimensioni territoriali e demografiche. Di più: le azioni dell’ultimo anno hanno costruito intorno allo Stato ebraico un muro di ostilità internazionale che ha riacceso focolai di antisemitismo su scala globale, mentre si è progressivamente e gravemente deteriorato il rapporto fra Israele e gli Stati Uniti, da sempre garanti della sua sicurezza.

Al tempo stesso, le proteste contro il governo Netanyahu e le sue politiche non solo belliche si sono moltiplicate, con manifestazioni di massa che riflettono un disagio sempre più marcato. Israele rischia di trovarsi non solo impegnato su più fronti esterni, ma anche sull’orlo di un conflitto interno, che potrebbe esplodere qualora la situazione – a iniziare dalla questione tuttora irrisolta degli ostaggi – non cambi rapidamente.

Questa situazione, peraltro, ben difficilmente aiuterà le pur condivisibili aspirazioni del popolo palestinese ad avere un proprio Stato. Neglette dai “fratelli arabi” fin dal rifiuto di Egitto, Siria e Giordania di accettare nel 1947 – per proprio esclusivo interesse – il piano di partizione delle Nazioni Unite, tali aspirazioni trovano anche oggi un appoggio esclusivamente di facciata in gran parte del mondo sunnita, ove le petromonarchie del Golfo cercano invece da tempo un appeasement con Gerusalemme; e un sostegno soltanto strumentale da parte sciita (Iran e suoi vassalli).

Quale alternativa quindi? La continuazione della “guerra del peccato”, con gli oltre 42.000 morti e la terribile crisi umanitaria di Gaza; con il Libano, da decenni in balia di Hezbollah e incapace di controllare i propri confini, messo a ferro e fuoco; con l’impotenza assoluta della cosiddetta comunità internazionale, ben simboleggiata dagli indisturbati attacchi israeliani alla missione UNIFIL (ove è impegnato un numeroso quanto poco attivo contingente militare italiano); con il definitivo decadimento materiale e morale dell’intera regione interessata.

E con Benjamin Netanyahu, novello Shylock, sempre più impegnato a colpire il nemico con rappresaglie che hanno ormai travolto ogni diritto di autodifesa, ma che potrebbero alla fine condurlo verso un esito anche peggiore di quello riservato da Shakespeare al suo mercante di Venezia.

* membro della carriera diplomatica italiana per 34 anni, ha prestato servizio in Giordania (durante la prima guerra del Golfo) e in una mezza dozzina di altri Paesi. E’ stato vice rappresentante permanente alla FAO e  ambasciatore in Armenia e nel Principato di Monaco

@barbadilloit

Massimo Lavezzo Cassinelli *

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