Massimo Pamio è poeta e saggista. Dirige a Torrevecchia Teatina, paese d’Abruzzo, il Museo, originalissimo, della Lettera d’Amore. Ha dato alle stampe numerose opere. Suo interesse prevalente è l’arte, nella sua accezione più ampia. Tra le sue pubblicazioni ci occuperemo qui di, Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte, nelle librerie per Mimesis (per ordini: 02/24861657, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 167, euro 18,00). Il volume è arricchito da un saggio introduttivo di Arnaldo Colasanti e da un bellissimo e assai ampio, apparato iconologico riproducente pitture ed opere di artisti italiani contemporanei di grande valore. In copertina, del resto, campeggia il dipinto di Nicola Samori, In principio era la fine, che simbolicamente sintetizza il senso del libro Sensibili alle forme.
Sotto il profilo metodologico, il lavoro di Pamio è estremamente rigoroso. Questi, infatti, si adopera a rispondere alla vexata quaestio inerente il che cos’è dell’arte, con acribia scientifica, non sottovalutando, oltre l’ermeneutica teoretico-estetica, neppure l’approccio antropologico-sociologico. Tale metodo integrato consente allo studioso-poietes di pervenire a posizioni davvero originali, oltre che radicali, come nota Colasanti. A chi scrive, se abbiamo ben inteso, Pamio appare come un teorico dell’arte che fa, seriamente, i conti con quella che il filosofo francese Bernard Stiegler ha definito l’età della post-verità, epoca nella quale in pensiero è silenziato dagli idola del senso comune computazionale contemporaneo. Pensa, quindi, il Nostro autore, per dirla con Alain Badiou, “dalla fine” del pensiero europeo e, paradossalmente, proprio per questo, è indotto a guardare all’origine: «Il pensiero – scrive – è […] la fonte più visionaria che la storia della rappresentazione naturale sia riuscita a elaborare. Una forma che comprende forme. Una metaforma […] un’immagine che ha fatto di sé stessa […] un’idea». Per comprende tutto ciò e, in particolare il legame che unisce la produzione artistica a quella della physis, bisogna far riferimento all’indifferenza della natura leopardiana, che crea e distrugge nella totale indifferenza e che, pertanto, da sempre ha, in uno, ammagliato e terrificato gli uomini.
Chiosa l’autore: «Il mio studio si ripromette di contribuire a fornire elementi per la nascita di una logica nuova, naturalistica, che desti l’uomo dal torpore agonico in cui versa», nell’età del pieno dispiegarsi dell’Antropocene. Allo scopo, conduce il lettore, con sapienza argomentativa e documentazione vastissima, nella mondo sensoriale dei primi umanoidi della preistoria. Questi erano guidati da un esperire carico di pathos. Solo quando si cominciò, in quelle fasi aurorali della vita umana, ad associare la vista a un’emozione e a un piacere, l’uomo avrebbe intrapreso il cammino che, attraverso la memoria, madre delle Muse per gli Elleni, lo avrebbe condotto all’arte. Quaranta milioni di anni fa, l’Aegyptopithecus, vispa scimmietta, viveva nelle foreste con un atteggiamento esistenziale di partecipazione piena e grata alla esistenza del Tutto, in sintonia, insomma, con l’Anima boschiva. La foresta fu, con i sui suoi, il primo teatro sonoro, luogo nel quale, per la prima volta, questi primi esseri percepirono il darsi di ciò che Marius Schneider ha definito suono originario, il fluidico e ritmico dirompere dell’origine. Per questo, il “fare” della physis che l’arte autentica riproduce è, innanzitutto mixis, tentativo di s-determinare gli enti rappresentati dalla loro immediata valenza meramente fenomenica, per restituirli al principio animante che li vivifica, la dynamis, libertà-potenza sempre all’opera. Non potrebbe essere diversamente, in natura, come ricordò Anassagora, “tutto è in tutto” e ogni cosa in relazione con l’altra e, pertanto, non semplicemente “diversa”, come vorrebbe l’approccio analitico e logo-centrico, prevalso in Europa.
Non solo il mondo animale, ma anche il regno vegetale vive di relazioni, pensieri ed emozioni. Gli apparti radicali delle piante stabiliscono in un bosco relazioni impensate, atte a favorire, perfino, la vita delle sopravvenienti arborescenze. Pamio, ricorda con Stefano Mancuso, che: «Un bosco ha una complessità superiore a quella di un cervello umano», in quanto tutti gli enti di natura, nessuno escluso, sono dotati di una memoria distribuita, diffusa non solo nel cervello, ma perfino nei corpi interagenti. È quello che si evince durante la pratica, tra le altre, della “Danza profonda”, della Contact dance, come mostrato dal danzatore-filosofo Romano Gasparotti. Gli enti di natura si sono trasformati gradualmente, hanno acquisito forma in tre fasi essenziali: 1) morfogenesi, quando la creatura assunse caratteri che la resero distinguibile dalle altre; 2) morfognosia, quando apprese a riconoscere la sua forma e quanto le occorreva per sopravvivere; 3) morfoestesia, quando sorse il primordiale gusto e piacere per la forma: «La vita della Forma è Misteriosa Chiave d’ogni Alchimia». La vita non è semplicemente lotta zoologica per la sopravvivenza, ma un riconoscersi grazie ai richiami sensibili delle forme: «è interrelazione che unisce ogni elemento, è, soprattutto emanazione dall’Uno di forme mai identiche che magicamente assecondano e violano […] un codice segreto […] in vista di una glorificazione di una Matrice Originaria». La physis è “gemmazione di sé”, ma anche tensione riconnettiva, eros, tensione-verso l’origine.
Lo stesso, come riconobbe Andrea Emo, avviene nelle produzioni autenticamente poietiche. Le forme naturali e artistiche non sono che immagini figurali che, emianamente, si generano dal rogo di altre immagini, come nel caso dell’araba fenice. L’arte s-determina gli atti aristotelici sottraendoli al loro destino di “prigionieri” della mera oggettualità. Oltre il theorein metafisico-scientifico, ma senza escluderlo, Pamio rinvia a nuovo sguardo sul mondo, la visione orfica propria del poiein. Su questo punto concordiamo pienamente. Il problema è che, nelle sue pagine, ci pare di aver rintracciato il richiamo a Uno trascendente. Chi scrive è, al contrario, in sequela di Bruno e dei pensatori aurorali della Grecia, che il principio sia infranaturale. Nonostante ciò, il volume che abbiamo presentato, nel silenzio assordante dell’attuale dibattito estetico, può svolgere un ruolo di rilievo, proprio perché le sue pagine permettono di rilevare come la coscienza singolare coincida, comunque, con quella vigente nella physis.