Musica. Le alchimie del dio selvaggio di Nick Cave

L'artista torna libero e selvaggio, complice la ormai saldissima collaborazione con Warren Ellis, rasputiniano dal look un po’ genderfluid che pare uscito da una fiaba del folklore russo interpretato da Nikolaj Lilin

Il concerto di Nick Cave a Milano

Dopo quasi 8 anni di assenza, una pandemia e una guerra, Nick Cave e i Bad Seeds tornano ad esibirsi al Forum di Assago davanti a 11.000 persone per il “Wild God Tour”, con Colin Greenwood dei Radiohead come bassista. Quel Dio, sempre presente tra i pensieri e le parole non solo del Cave musicista ma anche del Cave scrittore (si pensi al recente “Fede, speranza e carneficina”, scritto a quattro mani con Sean O’Hagan, e all’eccezionale “E l’asina vide l’angelo”, pieno zeppo di riferimenti biblici), che nel 2011 era “in the house”, oggi torna libero e selvaggio, complice la ormai saldissima collaborazione con Warren Ellis, rasputiniano dal look un po’ genderfluid che pare uscito da una fiaba del folklore russo interpretato da Nikolaj Lilin. Non a caso, come quello di Jim Morrison era “Re Lucertola”, il soprannome di Cave è “King Ink”, Re Inchiostro, quell’inchiostro che marca la pelle degli iniziati in tante culture e religioni. E proprio alla dimensione rituale si richiamano sempre le esibizioni dal vivo di Cave, anche quelle dei brani del nuovo disco, uscito il 30 agosto, che rischiano di sfiorare l’effetto karaoke, con i loro slogan monocromatici, inframmezzate però da vere e proprie “messe nere” dai ritmi ipnotici sui pezzi storici del cantautore australiano, come “The weeping song”, “Red Right Hand” e “The mercy seat”.

La “messa nera” in questione non è, però, da intendersi nel senso deteriore del termine, satanista, bensì nel senso dell’opera al nero, la nigredo del Magnum Opus alchemico: una fase di una triade, quella legata al caos, all’inverno (“Fifteen feet of pure white snow”), alla notte (“Long Dark Night”), a Saturno (“Rings of Saturn”, in “Skeleton Tree”) al Corvo (i corvi onnipresenti de “E l’asina vide l’angelo” e della graphic novel biografica di Kleist).

A riprova di ciò, “Wild God”, ideale albedo, è infatti un disco solare, concepito per essere eseguito dal vivo, perfetto per l’interazione con il pubblico, che Cave predilige da sempre, stringendo mani, accettando e restituendo agli spettatori fazzoletti intrisi del suo sudore – purtroppo non di sangue, che si sarebbe attagliato meglio tanto alla ritualità cristianeggiante quanto alla figura del vampiro, che, originata da un progetto, poi abbandonato, di romanzo, ha finito per dare il nome all’elegante brand di moda goticheggiante della moglie di Cave, Suzie: “The Vampire’s Wife”, appunto.

Ciò che non cessa mai di stupire è come un uomo che nella vita ha affrontato in successione lutti tanto laceranti (in primis la morte di due dei quattro figli, Arthur e Jethro, e poi, recentemente, quella di una delle musiciste che lo accompagnavano in tour da anni, Anita Lane, a cui è dedicato il brano “Oh wow oh wow – how wonderful she was”) possa esprimere sul palco tanta energia e tanta gioia di vivere, in netto contrasto con una storia personale tanto oscura – contrasto netto quasi quanto quello tra i completi sartoriali scuri e le camicie immacolate che Cave indossa, invariabilmente, da anni.

Il dubbio ogni tanto s’insinua, anche di fronte alla stessa dichiarazione che ha accompagnato l’uscita del disco: “Ascoltando questo disco, sembra che siamo felici”, ma poi ci abbandona, o meglio, trova la sua giusta collocazione immergendosi nel finale di “The weeping song”: “This is a weeping song/ A song in which to weep/While all the men and women sleep/While we rock ourselves to sleep/This is a weeping song/BUT WE WON’T BE WEEPING LONG”. E allora non sarà mica un caso che uno dei simboli della rubedo, ultima fase del magnum opus alchemico, sia una rosa rossa, come quella del videoclip di “Where the wild roses grow”?

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Camilla Scarpa

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