Serie A. Il calcio al tempo della crisi esalta la grinta delle provinciali

La crisi ha i suoi lati positivi. Soprattutto nel pallone. I monte-ingaggi si abbassano, l’età media scende drasticamente e in panchina non siedono fenomeni da circo, ma uomini di calcio; per di più non ottuagenari. E’ la rivincita delle provinciali: belle, nei loro aggressivi 4-3-3, pratiche, nei loro contropiedi punitivi, e perché no?, vincenti.

A parte la Juventus, a breve costretta ad emigrare in Brasile o in Cina dove i tifosi sono di più, costano 80 volte meno e i governi sovvenzionano il mercato delle auto, la serie A si tinge di appartenenze passate, di identità viscerali. L’inno della Samp, di un ottimo Ferrara, ad esempio, in una strofa ricorda:  “per che squadra tifi? Come mio papà”. Sono tradizioni da contrada, di un calcio castrense, di fedi incrollabili, saldate dalla bellissima sfortuna di nascere sotto le insegne di una provinciale. Provinciale: quel termine che non piace a Stramaccioni, piccato e risentito, dopo l’Europa, come uno di quei fenomeni da circo della panchina, punito da due folate controtempo di un Siena “sparagnino” in quel di San Siro.  E quadrato sembra il Toro di Ventura, sempre vivo il Catania del geniale Pulvirenti, ben messo in campo il Bologna di Pioli. Insomma questa non è la Liga spagnola o la Premier. Torniamo un po’ più poveri, un po’ più cattolici e campanilisti, ma con un campionato vero, fatto di bolge, gradinate inespugnabili e passioni vere. Chiedere al Milan in quel di Udine. Passioni toste, come quella Viola, stasera in campo contro l’arcinemica: polemica gonfiata in modo ipocrita sì (le Tods sono così nazional-popolari?), che però ben sottolinea il clima generale del paese.

C’è tutta una serie A fatta di piccole e medie imprese stufa del calcio programmato a bacini d’utenza e incazzata con i soliti padroni di Confindustria. Sono passati vent’anni dall’ultimo scudetto provinciale, quello pre-televisivo di Vialli e Mancini, vent’anni dall’ultima tangentopoli e dagli altri sconvolgimenti radicali della società e della politica. La Juve è di un’altra categoria, ma non c’è metafora migliore del pallone, in termini di follia e ricorsi storici.

Pietro Vierchowod

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