Il libro. E per superare la crisi arriva “il corporativismo del terzo millennio”

quadranteLa crisi economica attuale, che sta mettendo a repentaglio il destino delle nazioni europee, pone oggi quesiti fondamentali che esigono risposte urgenti. Sinora, tuttavia, le soluzioni proposte si sono limitate ad approcci meramente contabili o a goffe utopie neoarcadiche. E tantomeno si è cercato di uscire dal «discorso» liberista dominante, che della crisi è attore protagonista e indiscusso, tentando dunque di rifondare alla radice le coordinate politico-economiche della nostra società. Ebbene, proprio da questa esigenza è sorto il volume Il corporativismo del terzo millennio. Libertà, partecipazione, lavoro: una rivoluzione possibile (Aga ed., pp. 288, €16).

L’opera, in particolare, nasce nell’ambiente culturale di CasaPound Italia ed è stata curata proprio da due giovani militanti della “tartaruga frecciata”, ossia Valerio Benedetti e Filippo Burla, i quali hanno potuto avvalersi della collaborazione competente di diversi studiosi: tra gli altri l’introduzione del giornalista e saggista Adriano Scianca, responsabile della cultura della stessa Cpi e collaboratore di Barbadillo; l’intervista al vicepresidente di Cpi Simone Di Stefano; il contributo di Augusto Grandi, giornalista del Sole 24 Ore e collaboratore di Barbadillo; e la postfazione curata da Hervé Antonio Cavallera, professore ordinario di Storia della Pedagogia presso l’Università del Salento, nonché curatore delle Opere complete di Giovanni Gentile.

Scopo dichiarato degli autori è quello di tracciare salde coordinate d’azione e di stimolare discussioni su quelle che sono problematiche decisive della nostra epoca. A fronte del graduale smantellamento dello Stato, della galoppante precarizzazione del lavoro, della finanziarizzazione selvaggia dell’economia, della struttura “liquida” della società moderna, del contesto continentale e planetario in cui si muove l’Italia, del montare crescente dell’antipolitica e della totale sfiducia negli apparati rappresentativi della nazione, è dunque ancora possibile parlare di libertà, partecipazione e lavoro, intesi come capisaldi di un’idea di civiltà? Ebbene, per gli autori del libro la risposta è affermativa. E la risposta sta appunto in quello che i curatori hanno definito “corporativismo del terzo millennio”.

Il punto di partenza per giungere a questo corporativismo è rappresentato, com’è facilmente intuibile, dal corporativismo fascista. L’idea corporativa – che è oggi abbondantemente misconosciuta o fraintesa, anche negli ambienti neo- e post-fascisti – fu del resto il cardine attorno al quale l’Italia mussoliniana intendeva fondare la propria concezione di Stato e la sua originalità storica, tentando di superare le aporie del liberalismo e di edificare una modernità specificamente italiana.

Proprio nel momento in cui la storiografia mainstream sta riscoprendo l’apporto decisivo che l’ordinamento corporativo ha fornito nel superamento della crisi del 1929 e in importanti evoluzioni delle strutture sociali italiane, è parso dunque opportuno agli autori ritornare alla fonte stessa del “miracolo italiano”. Miracolo che, tra i tanti, stupì lo stesso Roosevelt, il quale inviò in Italia i principali operatori del New Deal per studiare le riforme economiche dell’Italia fascista.

Ciò che in particolare rilevano i vari collaboratori del saggio è la natura eminentemente politica (e non solo economica) dell’idea corporativa. Il fulcro del corporativismo, cioè, risiede nell’inclusione dell’individuo nello Stato. Scopo dell’ordinamento corporativo, in altre parole, è quello di rendere ogni cittadino protagonista attivo nella vita politica della nazione. E tale partecipazione deve avvenire – a livello concreto e non astratto – attraverso il lavoro, che è la principale realtà concreta d’ogni uomo. Il cittadino, quindi, non si deve limitare a esercitare la sua sovranità ogni cinque anni attraverso il voto, ma deve esercitarla ogni giorno nella rispettiva corporazione, la quale è un organo ufficiale dello Stato. Si tratta, com’è evidente, non di una bruta negazione della democrazia, bensì di un suo superamento dialettico, di un approccio rivoluzionario (e non stancamente conservatore) alla realtà. Il corporativismo, cioè, vuole più libertà, più partecipazione e più lavoro: in questo ideale era ed è riassunta la «civiltà del lavoro», a cui è dedicato il meraviglioso palazzo dell’Eur comunemente conosciuto come “Colosseo quadrato”.

La crisi economica è dunque interpretata non come crisi nel sistema, bensì come crisi del sistema. E la soluzione è intravista dagli autori in un’attualizzazione dell’idea corporativa. I problemi che tale questione porta con sé sono evidenti: è possibile pensare un nuovo corporativismo senza una compatta architettura statuale, in un’epoca in cui il concetto stesso di lavoro si disintegra e in un contesto “liquido” e freneticamente dinamico come quello della società del terzo millennio? Ebbene, gli autori tentano anche in questo caso di fornire risposte di massima, e in particolare nella seconda sezione del volume, allorché vengono illustrati gli strumenti politici, economici e giuridici grazie ai quali anche oggi è possibile realizzare forme di partecipazione diretta e di socializzazione del lavoro.

Il libro ovviamente non esaurisce l’argomento né tantomeno offre tutte le risposte, cosa che peraltro non era tra i suoi obiettivi. Scopo dell’opera, infatti, non è quello di fornire l’ennesimo escamotage intellettualistico e disancorato dalla realtà, bensì di animare dibattiti e discussioni. Ben fissando tuttavia i princìpi – oggi si direbbe i fondamentali – attorno ai quali ricostruire una nazione: libertà, partecipazione, lavoro. Una rivoluzione possibile?

Ettore Ricci

Ettore Ricci su Barbadillo.it

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