Monti ha levato la maschera al liberalismo, mostrandone il volto utilitaristico

A Mario Monti va riconosciuto un merito. Quello di aver posto fine al ventennio del liberalismo-pop. Ventennio berlusconiano nel quale l’appartenenza liberale concedeva una patente di credibilità da colorare per cento sfumature elettorali differenti. Ai tempi dell’austerity, però, tutto cambia: Casini, Fini, Montezemolo, nell’evocare disperatamente un Monti-bis, chiariscono i confini del liberalismo reale: costi pubblici in cambio di guadagni privati, tagli sociali per crediti privati, stretta monetaria generale a fronte di una speculazione senza colpevoli. Finito il liberalismo socialista, il conservatorismo compassionevole, l’economia sociale di mercato, e tutte le etichette grazie alle quali era possibile camuffare la propria falsa identità politica, Monti & co escono allo scoperto; forti dei loro sostenitori internazionali, forti di un capitalismo definitivamente globalizzato, essi possono mostrare il vero ed unico volto dell’ideologia più antica del continente, ancora oggi in grado di sfruttare la dimensione pubblica attraverso la proprietà e la gestione delle più classiche asimmetrie informative.

E’ questa la vera e taciuta crisi dei partiti: essi non hanno più alcun senso nel momento in cui viene data per scontata, addirittura formalizzata, la superiorità dell’interesse di alcuni gruppi su qualsiasi appartenenza collettiva. Casini, Fini, Montezemolo, si fanno rappresentanti di “stakeholders” dominanti e vincenti, a tal punto da poter commissariare costituzioni e democrazie. Dopo il fiscal compact né la destra potrà mai più abbassare le tasse, né la sinistra aumentare gli investimenti pubblici. Il liberalismo, progressivamente giunto alla sua piena maturità, pone così una pietra tombale sulla politica come agone di proposte e potere reale. Che siano vuoti interstellari come Renzi e Grillo a contendersi lo spazio residuale di pluralità che ogni totalitarismo concede per manifesta superiorità.

Inoltre, l’affanno di alcuni utopisti della libertà, quali Oscar Giannino, nel tentativo di salvare il capitalismo, l’idea di merito, di mano invisibile dalla palude tecnocratica che mescola moneta-fiat e delocalizzazione produttiva, è un altro chiaro segnale dell’annientamento della cosa pubblica (gli intellettuali in questo caso) da parte di quel sistema reale che il liberalismo stesso ha, nei fatti, creato.

Tuttavia, vi è da scorgere in tutto ciò un positivo chiarimento, un venir allo scoperto, uno svelamento di intenzioni e reali intendimenti. Finalmente il liberalismo perde quella parvenza di unica direzione della storia calzata con il crollo del muro di Berlino, per tornare ad essere la prima delle più vecchie malattie ideologiche occidentali.

Giacomo Petrella

Giacomo Petrella su Barbadillo.it

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