L’analisi. Larghe intese per la “stabilità”? Ma per uscire dalla crisi serve rappresentatività

C’è il dato politico – la cosiddetta “instabilità” – che l’eventuale crisi di governo porterebbe con sé. E c’è il dato economico – la recessione interna – che, però, queste “larghe intese” non hanno praticamente intaccato: in positivo, of course. A leggere i commenti, però, sembrerebbe che la grande coalizione rappresenti l’unico rimedio all’ingresso dell’Italia nel cerchio dei dannati. Cerchiamo di capire quanto sia vera questa supposizione. Certo, lo spread ieri – con rispettivo “tifo” dei vari quotidiani di establishment – dopo un iniziale balzo è rientrato, poi, nella sostanziale normalità. Anche se è vero che oggi il differenziale aumenta e supera in negativo i bonos spagnoli. Ma che dire allora di quanto – sotto il governo Monti, il massimo della “garanzia” rispetto agli umori dei mercati – lo spread superò quota 500?

Certo anche Angela Merkel – e qualche ora prima il Fondo monetario internazionale – hanno auspicato la tenuta del governo Letta: anche qui, siamo sicuri si tratti di un’assicurazione rispetto la volontà di integrazione europea per combattere la crisi? In ogni caso, insomma, fuori dai confini nazionali sembra che un po’ tutti sostengano lunga vita a Enrico Letta. E in Italia? Se politicamente il fronte dei “falchi” e delle urne al più presto è trasversale (non solo nel Pdl, perché nel Pd sono in tanti – da Massimo D’Alema a Matteo Renzi fino allo stesso premier – a tifare più o meno apertamente per le urne anticipate), quali dati sostengono che dal punto di vista economico il Paese abbia bisogno di “stabilità” intesa in questo modo?

Prendiamo le stime sulla produzione industriale. Notizia di ieri è che sia in “lieve” recupero. Lo afferma il Centro studi di Confindustria secondo cui a settembre l’incremento rispetto al mese precedente è stato dello 0,2%, e segue il +0,6% di agosto su luglio. Ma il distacco dai livelli dell’aprile del 2008, da quando cioè si fa partire la crisi? Resta evidente: -24,8%. Ciò ha portato – nel giro di due governi di emergenza – un numero impressionante di aziende chiuse (solo negli ultimi otto mesi sono state 50mila, dati Cgia di Mestre), nonché una propensione all’abbandono della ricerca tout court di un impiego (un milione di giovani non lo cerca più, dati Istat)

E che dire della ricetta dell’attuale premier per ridurre il debito pubblico italiano? Ricetta che sta per portare uno degli asset strategici del Paese come Ansaldo Energia in mano ai coreani (e perché no, come ha spiegato il ministro dell’Economia Saccomanni, anche altre quote di aziende come Eni e Finmeccanica)? Oppure il caso Telecom,  che ha costretto la politica a una corsa sfrenata a rattoppare anni e anni di immobilismo (lo stesso ad Bernabè ha denunciato l’assoluta mancanza di interesse per il destino di Telecom Italia) con un decreto di emergenza per evitare che finisca in mano spagnola con tutti i rischi per la stessa sicurezza nazionale (come ha denunciato il Copasir)?

Veniamo al tema del fisco. Oggi è arrivato il tanto temuto aumento dell’Iva che passa dal 21 al 22%: misura che centrodestra e centrosinistra si rinfacciano (in realtà misura inserita da tempo proprio a partire dall’ultimo governo Berlusconi) e che avrà ripercussioni pesantissime in un quadro economico depresso anche sul fronte dei consumi. Eppure si tratta di una decisione che era stata solo rinviata e che lo stesso premier Letta definiva solo qualche giorno fa «inevitabile». Così come sulla casa: invece dell’Imu è già pronta in ogni caso la service tax. E che dire del 30 settembre appena trascorso, giorno record delle “50 tasse”?

Veniamo, infine, ai numeri della disoccupazione: bene, qui i dati continuano a rimanere negativi senza e senza ma. L’Istat ha fotografato la situazione: il 40% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non lavora. E ciò, ironia della sorte, arriva nello stesso giorno del cosiddetto “clic day” (misura inserita nel decreto del fare per incentivare le imprese ad assumere gli under 30) che – come hanno affermato sindacalisti riformisti come Luigi Angeletti della Uil – non avrà alcuna ripercussione oggettiva perché «nessuna impresa in queste condizioni intende investire».

Dati alla mano non si capisce, allora, quale sia il valore indotto – soprattutto dal punto di vista economico – dalla tenuta a tutti i costi di queste larghe intese. Certo, rimane la spada di Damocle della trojka che minaccia punizioni ulteriori. Ma siamo sicuri, anche qui, che non sia proprio il deficit di politica rappresentativa (più che “stabile”) il problema? Un esempio su tutti: come mai l’Europa non permette alcuna rinegoziazione dei parametri all’Italia mentre altri Paesi hanno ricevuto una deroga Olanda (5%) , Francia (4,1%) e Spagna (10%) nonostante nel 2013 sforeranno abbondantemente il 3% del deficit/Pil? Mentre all’Italia e a quel suo 0,1% – nonostante i “compiti a casa” svolti – nulla? Sarà un caso che tutti Paesi in questione abbiano un governo regolarmente eletto e rappresentativo?

@rapisardant

Antonio Rapisarda

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