Ritratti. Ugo Tognazzi e la commedia italiana tra Tv, “Il Federale” e “Amici Miei”

amici miei ugo tognazziLa supercazzola del conte Lello Mascetti. I motti fascisti del camerata Primo Arcovazzi. I comizi roboanti dell’onorevole golpista Giuseppe Tritoni. E ancora le scenette “en travesti” con Michel Serrault ne Il vizietto, gli sketch televisivi con Raimondo Vianello, i Cattivi pensieri sul corpo nudo di Edwige Fenech. Sono decine, forse centinaia le scene con le quali Ugo Tognazzi è passato alla storia del cinema e della televisione italiana. Battute, gag e tormentoni che negli ultimi anni si sono guadagnate una seconda vita in rete, su YouTube e sui siti internet di tutto il mondo, dando anche ai più giovani la possibilità di apprezzare uno fra i più grandi protagonisti della commedia all’italiana.

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Tognazzi, il volto più “fisico” e carnale della comicità del Dopoguerra, è morto nel sonno per un’emorragia cerebrale ormai ventitré anni fa,  il 27 ottobre del 1990, all’età di 68 anni. Stava lavorando alla serie televisiva Una famiglia in giallo, che rimane l’ultima opera di una serie impressionante di film, produzioni teatrali, programmi televisivi e radiofonici. Una carriera cominciata, poco più che adolescente, presso la filodrammatica del dopolavoro aziendale della Negroni di Cremona, il salumificio dove Ugo Tognazzi era andato a lavorare all’età di 14 anni; e proseguita poi dai microfoni di Radio Tevere, l’emittente di “Roma libera” costituita nel 1944 a Busto Arsizio dalla Repubblica sociale italiana, dove l’attore cremonese duettava con un altro futuro grande dello spettacolo, Walter Chiari.

Piccolo inciso politico e di costume. Se i “coccodrilli” dei giornali possono essere letti come specchio dei tempi, allora appare evidente come negli ultimi venticinque anni in Italia la situazione italiana sia cambiata: negli articoli usciti sui giornali dopo la morte di Tognazzi, del suo passato fascista non c’era traccia (oltre a lavorare per l’Eiar di Salò era arruolato nella Brigata nera di Cremona); invece in occasione della scomparsa dell’amico e collega Raimondo Vianello, quasi nessuno ha taciuto la sua adesione alla Rsi, mai rinnegata. E non c’è stato scandalo né riprovazione “democratica e antifascista”.

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Ma torniamo a Ugo Tognazzi. Finita la guerra, si dedica al teatro e come avveniva in quei tempi si sorbisce una lunga gavetta, finché non viene scritturato dalla compagnia teatrale di Wanda Osiris. Ma è solo a partire dagli anni Cinquanta che l’attore cremonese scopre la sua vera identità comica e raggiunge il successo: prima gira un film con il vecchio amico Walter Chiari, poi nel ’51 conosce Vianello con il quale dà vita ad una delle coppie più famose dello spettacolo italiano. Nel ’54 i due approdano in Rai ed è il varietà Un due tre a consacrali definitivamente: gli spettatori apprezzano soprattutto il contrasto fra la comicità popolaresca e sanguigna di Ugo e quella più raffinata e “inglese” di Raimondo.

È un successo senza precedenti e risale a un loro sketch del 1959 uno dei primi casi di censura televisiva: i due misero in burletta un incidente occorso la sera prima alla Scala e rigorosamente taciuto dai principali mezzi di stampa: il Capo dello Stato italiano, Gronchi, mentre abbozzava un gesto galante con una signora, cadde a terra perché per errore gli era stata tolta la sedia accanto al presidente della francese De Gaulle. «Per un po’ ci cacciarono dalla Rai – ha ricordato Vianello in un’intervista – mentre il direttore della sede di Milano, da dove trasmettevamo, fu mandato via. Nello studio tv ci furono tre minuti di applausi: dal trionfo capimmo che eravamo rovinati».

In realtà Tognazzi non si occupò quasi mai di satira politica, non aveva un grande interesse per il genere e forse gli mancava un’adeguata sensibilità. Ma di certo non gli difettava lo spirito goliardico, la tendenza a infrangere i tabù e a mettere in burla anche le cose più serie. Lo dimostrerà in modo clamoroso nel 1979, quando accettò di prendere parte a uno dei più colossali scherzi mediatici della storia della repubblica: accettò di essere fotografato ammanettato da finti carabinieri per conto del settimanale satirico Il Male, che pubblicò anche tre finte edizioni dei quotidiani Il Giorno, La Stampa e Paese Sera con titoli che annunciavano a caratteri cubitali: «Arrestato Tognazzi, è il capo delle Brigate rosse». Molti ci credettero e per alcune ore l’opinione pubblica italiana fu in subbuglio. Ci furono critiche e polemiche, ma Tognazzi – giustificandosi della goliardata – disse che aveva solo voluto rivendicare «il diritto alla cazzata». Proprio come tanti dei suoi personaggi agrodolci, tipo il conte Mascetti di Amici miei. E come accadeva sovente in occasione degli incontri, delle cene e delle vacanze che organizzava con i suoi amici più stretti: Vittorio Gassman, Paolo Villaggio, Monicelli, Scola, Ferreri. Una volta Villaggio gli fece organizzare una cena cinese per quaranta persone (Tognazzi amava mangiare bene e cucinare…), ma poi non si è presentò nessuno e il padrone di casa rimase a smoccolare per cinque giorni consecutivi.

Del Tognazzi più noto c’è poco da aggiungere: popolarissimo grazie alla tivù e agli oltre 120 film girati (molti dei quali commediole di cassetta, altri veri e proprio capolavori della commedia all’italiana), vincitore del premio come miglior attore al festival di Cannes del 1981 (La tragedia di un uomo ridicolo, di Bertolucci), di tre David di Donatello e quattro Nastri d’Argento; ha firmato anche cinque lungometraggi come regista. L’ultimo – I viaggiatore della sera, del 1979, che ha avuto poco successo di critica e pubblico – è forse quello che meglio lo rappresentava in quella fase della sua carriera. Un film crepuscolare, ambientato in un’Italia del futuro in cui gli anziani sono costretti a trasferirsi in uno speciale villaggio nel quale, tramite una lotteria, si decide periodicamente chi debba vincere una crociera. Nessuno dei vincitori di queste “crociere” ha però mai fatto ritorno al villaggio, per cui il protagonista, sospettando che in realtà vengono soppressi, cerca di organizzare un’evasione.

«Era più o meno ciò che pensava della società e un po’ anche su quello che gli stava accadendo come attore – ha raccontato il figlio, Gianmarco – cioè il fatto che i vecchi a un certo punto vengono messi da parte, mandati a morire… Lui aveva una grande paura della morte, e infatti la esorcizzava in ogni modo: mi ricordo che ci fu una cena a Velletri con tutti gli amici e colleghi al termine della quale volle assolutamente fare una specie di sondaggio per decidere chi di tutti loro doveva morire prima». E accanto alla paura della morte, la depressione. Che lo accompagnerà negli ultimi anni di vita. «Era diventato uno solitario – commenta ancora il figlio -. Ricordo che un momento altissimo di comicità drammatica è stato il penultimo capodanno che abbiamo fatto tutti insieme, con la famiglia Gassman: mio padre e Vittorio passarono tutta la sera in depressione totale, a piangere in camera e a fare a gara chi dei due era più depresso. Sino a quando non hanno iniziato loro stessi a ridere della loro depressione».

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Giorgio Ballario

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