Riletture. Albert Camus tra senso del limite e rapporto uomo-natura

albert camusAvevo diciotto anni quando scoprii i testi di Albert Camus. In quel tempo stavo attraversando una profonda crisi religiosa e Camus parlava al mio cuore e alla mia ragione, raccontava del vento, del mare, della meditazione serale, del viso amato e del fugace splendore della vita, ovvero del suo rovescio e diritto, come s’intitolava una sua raccolta di saggi giovanili. Fu, se l’espressione non fa troppo sorridere, il mio primo filosofo. Cordiale discepolo del sole, per dirla con Drieu, Camus faceva filosofia sulla stessa linea di Nietzsche, cioè del filosofo-artista che pensa soprattutto attraverso immagini e si affida non a trattati, ma a brevi saggi, non al gergo astruso, ma alla prosa vivida di romanzi e di articoli.

L’attualità del suo messaggio è però legata ad una ragione più profonda. Camus ebbe il senso vivo e lucido del limite. Ne L’estate, una raccolta di articoli e saggi  pubblicata nel 1954, Camus riassumeva la sua filosofia con immagini e frasi folgoranti. Confrontando il pensiero dei Greci antichi e quello dei moderni, rivendicava con forza il concetto di limite, che, ricordiamo, è uno dei cardini dell’ecologismo e accusava l’uomo moderno di aver voltato le spalle alla natura, di coltivare la propria disperazione nella bruttezza. Morto Dio, non restava che la storia, ma la storia, diceva in polemica con lo storicismo marxista allora predominante, “non spiega né l’universo naturale che c’era prima, né la bellezza che sta sopra la storia.” E concludeva con un’amara constatazione: “noi manchiamo di quella fierezza dell’uomo che è fedeltà ai propri limiti, amore chiaroveggente della propria condizione.”

Sandro Marano

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