Taranto/Ilva (di A.Mellone). Narrare l’epopea dell’acciaio? Un dovere. E non finisce qui

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Ho sempre considerato Taranto una città strana. E l’ho amata per questo, alla follia, come una madre, la mia madrepatria. L’ho fatto strano. Ho continuato ad amarla a modo mio, di un amore pazzo e a senso unico, un amore non corrisposto dal luogo che a diciott’anni, a me a migliaia di quella schiatta di emigrati del 1991, primi di una nuova generazione, mi ha messo in mano un biglietto di sola andata.

Taranto è una città strana, è acciaio e mare, terra e pietra, bisso e tricolore marinaro, è bellezza enorme e bruttezza infinita, è al dunque la convergenza di opposti che convivono, magari nello stesso isolato, magari abbracciando dieci scorci diversi con un solo movimento degli occhi. Io di questa città sono figlio, e l’ho sempre cantato e rivendicato come un marchio di orgoglio. Di più, di Taranto ero e sono un figlio particolare, uno della razza dei “figli dell’acciaio”. Mio padre e mia madre si sono conosciuti dentro l’Italsider. Mia madre è figlia di un genovese che ha costruito Cornigliano e che è arrivato a Taranto nel 1968, a capodanno, quando la città era ricoperta di neve come mai prima e come mai più dopo. Mio padre faceva parte della prima schiatta di matricole assunte per cosa? Per dare a questo pezzo di terra meridionale la possibilità di un sogno, il sogno del riscatto, di fare di Taranto l’avanguardia di un Sud sviluppato, operoso, affluente. Un Sud diverso. Il Nord del Sud.

Ho vissuto Taranto in ogni angolo, in ogni strada, in ogni vicolo, sono andato a scuola – complice una nonna insegnante di frontiera – al rione Tamburi, quello delle polveri rosse. Mi ci accompagnava mio padre prima di entrare in Stabilimento, era l’unico momento della giornata, quei chilometri da viale Magna Grecia alla “Egidio Giusti”, in cui scambiavano qualche parola. Dopo, per lui, c’era solo lo Stabilimento (quante vacanze annullate e ritorni precipitosi!), così come per la quasi totalità dei padri dei miei compagni di classe, quelli che, dirigenti od operai era lo stesso, proclamavano orgogliosamente di «produrre il miglior acciaio del mondo». Noi bambini eravamo fieri di quei padri, gli dedicavano disegni di ciminiere immense, una volta andammo a piantare eucalipti sulla Appia (ancora conservo i ritagli di giornale di quelle giornate) perché, sì, quegli alberi, che dovevano essere piantati a centinaia di migliaia, avrebbero assorbito i fumi che l’Italsider spandeva assieme alla ricchezza, e al senso di appartenenza.

Di mio padre, e di un ragazzino costretto a essere un orfano dell’acciaio, ho scritto, a lui e ai suoi commilitoni della frontiera siderurgica ho dedicato AcciaioMare, un lavoro che ho scritto di getto e di rabbia quando, appresso a un’inchiesta giudiziaria, ho visto l’intero passato industriale della città buttato sul banco degli imputati. Avevo già scritto di Siderurgico prima del sequestro dell’area a caldo dello Stabilimento lo scorso anno, in Addio al Sud e in tanti articoli, e ne avevo sempre scritto dolorosamente, come della grande speranza che si era sbriciolata nel fallimento di un modello di sviluppo, capace prima di chiamare genti a Taranto da ogni angolo di Sud, e fare di Taranto il miracolo dell’unica città meridionale di immigrazione, e poi di sputare i loro figli alla ricerca di lavoro e realizzazione in giro per l’Italia.

Una memoria dolorosa, indocile, che mischiava drammaticamente i ricordi personali a una storia che da epopea si stava trasformando nella sua nemesi. Ho sempre creduto, però, che una città non possa scegliersi il proprio passato, così come un individuo, e dunque ho sempre lottato perché la memoria caleidoscopica, contradditoria, affascinante che Taranto possedeva nella sua storia industriale, militare, marinara, fosse custodita e “ragionata” come un unico, incredibile contenitore di storie. E dentro le storie ci sono tanto i successi quanto i fallimenti, la pagine gloriose e quelle indegne. Taranto possiede tanto di tutto questo. L’unica ragione per cui mi sono buttato pancia a terra nella mia battaglia culturale è stata la reazione a quella che consideravo e tuttora considero un’azione di massacro della memoria industriale della città. Dentro quella memoria, e nell’epopea nera che ha prodotto, ci sono vite, storie, biografie, tragedie, sogni, dentro la navalmeccanica e l’acciaio c’è il poderoso sostrato di una storia unica, e osservare dei miei concittadini che, con incoscienza e ingratitudine, si sono messi a smontarla, questa memoria, ha prodotto in me un grande dolore che ho trasformato in ciò che so fare: la scrittura, la ricerca, l’inchiesta.

Questo so fare, armeggiare con le parole, e questo ho fatto, per ricordare ai tarantini chi sono e per spiegare a tanti italiani che la storia della mia città è un patrimonio nazionale da conoscere, prima, e tutelare, poi. In tanti mi hanno accusato, direi a capocchia, nella mia alzata di scudi a sostegno (anche) della memoria dell’acciaio e degli uomini dell’acciaio, di essere insensibile ai problemi sanitari e ambientali che stanno mettendo Taranto a dura prova. Una scemenza – quella della mia insensibilità – che, oltre a non tener conto della storia personale, si è nutrita semplicemente della mia polemica contro gli ambiental-qualunquisti, quel pezzo, minoritario ma urlante, di città che ha monopolizzato una sorta di populismo della paura e lo ha riprodotto mediaticamente, causando a Taranto un danno di immagine che impiegherà decenni per essere bonificato. Non tolleravo e non tollero che la mia città-patria e matria faccia macello del proprio passato, al punto che – in mezzo al bailamme che ha gettato Taranto in un impasto micidiale di inchieste, classe dirigente mediocre, corruzione, populismo autodistruttivo, masochismo mediatico – ci siamo voluti io e Peppe Carucci per chiedere una banalità: perché nella città che ha visto cinquecento morti bianche dentro il Siderurgico, non esista nulla, nemmeno una targa, a ricordare questi cinquecento eroi dell’acciaio.

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Ho combattuto disinteressatamente e con la gioia dello scontro di idee, in questi mesi, a fianco dei tantissimi – la maggioranza superassoluta dei tarantini, per esempio – che chiedono la civiltà di avere, nel 2013, un’industria ambientalizzata che produce acciaio senza far ammalare la gente o distruggere l’ambiente. Grazie alla ricerche per AcciaioMare e non solo, ho conosciuto storie incredibili, gente fantastica, amici antichi di mio padre e amici nuovi velocemente diventati fratelli, ricordi commuoventi di un’epica sconosciuta agli stessi tarantini. Roba che, messa tutta insieme, non può che farmi versare una virile lacrima su questa tastiera. Con Peppe, Luca, Ciccio, Joseph, Fulvio, la mia crew e pochi altri, abbiamo messo in piedi l’anteprima teatrale di AcciaioMare in un auditorium di periferia dopo aver ricevuto imbarazzanti niet da sedicenti “operatori culturali” che avevano paura di essere criticati per aver affittato le loro sale al sottoscritto. L’abbiamo riempito, quell’auditorium, è stata una serata memorabile, e il 28 dicembre 2012 resterà una piccola grande vittoria di un gruppo di fratelli, lo schiaffo in faccia all’ipocrisia e alla piccineria della borghesia più inutile d’Italia. Solo per questo, e per il regalo incredibile della fotografia degli “angeli dalle ali rugginose” organizzato da Enrico, rifarei tutto mille volte, solo per questo rivivrei i lunghi pomeriggi passati al Caffè italiano a intervistare vecchie e nuovi operai, e mi riprenderei uno per uno gli insulti oltraggiosi, le accuse imbecilli, le cattiverie che sono stati spesso la moneta avvelenata con cui qualche tarantino ha ripagato il mio impegno. Chi se ne frega, Mishima, le spalle larghe e la certezza delle idee mi hanno fatto scivolare queste idiozie – compresa l’ostilità di qualcuno, nient’altro che invidia mascherata, soprattutto da parte di qualche cronista poco conosciuto fuori città – come liquido puzzolente ma innocuo.

Non è per questo, dunque, che ho deciso di mettere la parola fine al mio impegno su Taranto e per la difesa della storia e della memoria di questa città. No, è perché credo che il mio compito, che era e vuole rimanere di pura testimonianza, si è esaurito. Ora che un racconto alternativo e controcorrente – contro la corrente del populismo facile, del giornalismo sensazionalistico e della malafede – di Taranto esiste ed è agli atti, è giusto dichiarare chiusa la mia impresa personale e dei pochi o tanti che mi hanno dato una mano. C’è solo una cosa che devo ancora fare e che, essendo un testone, alla fine manderò in porto: un documentario sulla Fabbrica e i suoi operai. Sono dietro a questo sogno, una nuova edizione dei vecchi “film industriali”, da un anno e mezzo. L’unica volta che ho avuto a che fare con il gruppo Riva è stato per chiedere l’autorizzazione a entrare in Stabilimento per le riprese, la risposta ovviamente è stata “no”. Ma non ho ceduto di un millimetro. Ora ho fiducia che il nuovo corso commissariale di Bondi e Ronchi permetterà di realizzare questo che considero un imperativo morale, prima che editoriale, per rispetto alla storia tarantina, alla memoria dell’acciaio, e alla stessa storia italiana. All’Italia dove nessuno se lo ricorda, ma esiste ancora, sulla costa jonica, una città operaia. La mia città, il luogo delle radici, di radici spezzate che, nonostante tutto, continuano ad avvolgere il mio cuore. Radici a cui dire continuamente addio, e continuamente ritrovarle a dare senso, profondità, dolore, al ragazzino fatto uomo.

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Angelo Mellone

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