Reportage. In Arzebaijan dove Agdam ricorda l’antica Pompei

C’eravamo spinti sino all’ultimo centro abitato, poi  veniva la zona interdetta:  territorio dell’Arzebaijan conquistato ed occupato dalle truppe dell’Esercito di difesa del Nagorno Karabakh  nella controffensiva dell’estate del 1993. Più in là la linea del cessate il fuoco, ove dal 1994 si fronteggiano, trincerate, le truppe dell’esercito azerbaijano e quelle degli armeni della autoproclamata, ma non riconosciuta dalla comunità internazionale,  Repubblica del Nagorno Karabakh (all’epoca dell’Urss, pur se storicamente e di popolazione a maggioranza armena armena,  fu assegnata all’Azerbaijan come provincia autonoma). In quel momento la tensione era alta con frequenti schermaglie di confine e tentativi di infiltrazione da parte degli azeri. Questo però lo abbiamo saputo dopo.

Allora l’idea era quella di visitare Agdam, la città fantasma, conquistata dopo una furiosa battaglia nel giugno-luglio del 1993 dalle truppe armene e del Karabak, abbandonata dagli abitanti azeri, messa a ferro e fuoco, saccheggiata e completamente depredata negli anni successivi. Ora una specie di moderna Pompei.

I miei compagni di viaggio, mio figlio Ettore e l’amico dott. Renato Greco, mi spingevano a proseguire. Non è che avessi particolari preoccupazioni per la nostra sorte, perché  presumibilmente ci avrebbero rilasciato in tempi ragionevoli, né ancora sapevamo che  qualche chilometro più avanti c’erano problemi sulla linea di cessate il fuoco.  Il fatto era che avevo  noleggiato io la vecchia Lada 4×4,  dando in  garanzia la mia carta di credito,  e temevo potessero sequestrarci l’auto. Per verificare la situazione decisi di chiedere notizie in paese. Ci fermammo al primo negozietto che  incontrammo e lì  chiesi  ad un vecchietto se, andando  avanti, ci sarebbero stati problemi con i  militari e se c’era pericolo che ci arrestassero.  Il  simpatico vecchietto mi assicurò  che potevamo andare tranquillamente perché non c’era alcun  problema.   Il tutto, ovviamente, senza che nessuno dei due capisse una sola parola della lingua dell’altro.

Rassicurati, proseguimmo. Il paesaggio, che sino a quel punto, e come per tutto il Karabakh, era prevalentemente montuoso, si fece piatto. Non c’era alcuna indicazione stradale se non un cartello piuttosto artigianale con il chiaro avvertimento di  fare attenzione al passaggio di carrarmati. Più avanti un carro sovietico T-72, installato a mo’ di monumento in una piazzola al lato della strada,  ci testimoniava che in quei posti s’era combattuto e vinto.

Ora non saprei dire come, ma ad un certo punto ci trovammo in quelli che erano i sobborghi della città,  un tempo abitata da  quasi 60.000 azeri. Una città viva, vitale e allegra.   Nonostante la  vegetazione avesse oramai preso il sopravvento, ci si poteva render conto che  lì c’era stata una  città abbastanza estesa. Gli  scheletri di quelli che un tempo, nemmeno tanto remoto  erano grandi e begli edifici. Ad un certo punto ci trovammo di fronte una  moschea, cumuli di rovine intorno con residui di maioliche multicolori strappate dalla facciata. L’edificio sacro, con i   caratteristici minareti ancora integri e svettanti su quel deserto,  era stata risparmiata dalla  distruzione ma non dalla profanazione, come potemmo constatare subito dopo: svuotata di tutto era stata utilizzata come stalla. Le prove erano lì, evidenti e puzzolenti.

Proseguendo,  svoltato un angolo,  ci trovammo davanti, a meno di una cinquantina di metri, dei militari. Accidenti siamo fregati! Pensammo. E per non destare troppi sospetti facemmo quello che in genere in questi casi si fa: gli indifferenti. Proseguimmo lentamente, e passando loro vicino salutammo. Ci andò bene. Vuoi  la faccia di armeni ce l’avevamo, vuoi la vecchia Lada che  ricordava i tempi di Ceausescu, vuoi perché loro, sbracatissimi ed accaldati,  erano impegnati a caricare residui ferrosi su un camion (a distanza di vent’anni la  città era ancora una inesauribile miniera a cielo aperto), ma i militari continuarono nelle loro faccende affaccendati senza curarsi di noi.

Ci rendemmo conto della vastità della città e di quanto meticolosa e sistematica era stata la spoliazione. Tutto, ma davvero tutto  ciò che era asportabile era stato portato via: dalle ringhiere di ferro agli infissi, dalle tubazioni ai bagni. Anche i mattoni degli edifici erano stati in buona parte  asportati e riutilizzati  altrove come materiali da costruzione. Sapemmo che dopo la guerra gli abitanti della capitale, se così si può dire, Stepanakert,  si riversarono in massa  sulla città agonizzante per un forsennato shopping. Girando per le strade deserte ci accorgemmo, fortunatamente appena in tempo, che anche i tombini per le strade non c’erano più. Una situazione assolutamente surreale, non un rumore. Nemmeno il cinguettio di un uccello. Eppure  lì c’era stata una piazza con una bella fontana. Dall’atra parte il mercato. All’angolo il cinema. Tracce di quello che era stato un quartiere residenziale con schiere di  villette  che testimoniavano l’agiatezza di chi le abitava. Sembrava di vedere ancora il via vai della gente che affollava le strade.  Ora più niente. Se curiosate da quelle parti col satellitare di Google vedrete una situazione che ricorda  Hiroshima dopo l’esplosione nucleare.

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Fa un certo effetto vedere in faccia   la  Storia ed i sui tragici effetti. La storia non ancora compiuta. Ed anche qui  ognuno ha le proprie buone ragioni ed i propri torti con i rispettivi carichi di efferatezze  che accompagnano tutte le  guerre. Hanno ragione le centinaia di migliaia di armeni, che, scacciati,  hanno dovuto lasciare le loro case in Azebarjian, ove abitavano da generazioni e generazioni. Ed hanno ragione gli azeri, che pure loro, scacciati, hanno dovuto lasciare, a centinaia di migliaia,  i loro villaggi e le città ove vivevano in Armenia e Nagorno Karabakh,  per trovare rifugio dai loro fratelli.  E la ragione da che parte sta? Con gli ucraini o i russi che si vedranno  privati rispettivamente della loro patria a seconda di chi prevarrà?  O i tartari di Crimea, che erano stati privati della  loro terra da russi e ucraini ed esiliati poi da Stalin? Ma che a loro volta nel corso dei secoli avevano tolto quella terra a chi l’abitava prima di loro?

E’ la  Storia. Che conosce solo le proprie ragioni  e travolge nel sangue nelle sofferenze e nelle distruzioni le ragioni  delle persone, delle famiglie e spesso anche quelle dei popoli.  E che col tempo  poi quelle ragioni cancella.

@barbadilloit

Edoardo Fiore

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