Cinema. 47 Rōnin la “via del guerriero” in un Giappone magico e feudale

47-roninUn Giappone magico e feudale, una storia emblematica della cultura nipponica ma anche una buona dose di individualismo americano a guastare il racconto di un esempio. Non capita tutti i giorni di sedersi al cinema e gustarsi una storia di onore e fedeltà. E se si fa la tara della tendenza, tipica del cinema a stelle e strisce, a infilare l’eroe solitario anche nella più impersonale delle storie, “47 rōnin” può diventare persino un piacevole compendio del bushidō, la “via del guerriero” della casta guerriera dei samurai, edito per la prima volta in Italia dalle Edizioni di Ar. Mica bruscolini, di questi tempi.

La storia è semplice. E soprattutto vera. I quarantasette rōnin sono un gruppo di samurai al servizio di Asano Naganori, un daimyō che è costretto a compiere il rituale seppuku a causa delle macchinazioni, favorite (nel film) da una strega, del maestro di protocollo dello Shōgun, Kira Yoshinaka. I samurai, rimasti senza padrone e quindi retrocessi a rōnin, si vendicheranno del loro signore anche grazie all’aiuto del mezzosangue Kai, interpretato da Keanu Reeves.

E proprio la presenza del celebre attore americano costituisce la nota stonata in un coro altrimenti da brividi. Non si tratta di doti attoriali: Keanu Reeves è fuori luogo perché è il suo personaggio a essere un intruso. Nella realtà storica come nella finzione narrativa. Un tributo da pagare sull’altare del mito del self made man, finalizzato a rendere appetitoso per il pubblico occidentale un pasto impersonale e collettivo. Il tentativo, come spesso accade nel cinema americano, è quello di rappresentare l’eroe che si eleva dal gruppo. In guerra come in amore. Si finisce così per stravolgere l’essenza stessa di un mito fondante del Giappone, e l’impersonalità eroica di chi segue il bushidō diventa, a tratti, pseudo-eroismo posticcio da tardo romanticismo.

Tra atmosfere fantasy e prestiti da modelli ormai consolidati (la rappresentazione di alcune creature mostruose deve molto a 300) il film girato da Carl Rinsch può contare su scenografie e costumi d’eccezione. In particolare i secondi, realizzati (non a caso) da Penny Rose, già costumista dei diversi capitoli della serie “Pirati dei Caraibi”. Due scene, in particolare, restano scolpite al punto da emozionare quanti riconoscono nel bushidō una delle più alte rappresentazioni mai raggiunte dagli uomini per darsi una forma.

La prima è il giuramento: il samurai retrocesso a rōnin, Oishi Kuranosuke, celebra una funzione spirituale: ogni guerriero si impegna in un giuramento e scrive il proprio nome accompagnandolo con una goccia di sangue derivata da un taglio, che ciascuno si infligge con la propria katana, al polpastrello. Sangue e onore a fare da sigillo a una promessa di fedeltà.

La seconda è il seppuku collettivo con cui – fatta eccezione per il figlio di Oishi, che lo shōgun risparmia perchè “non vada perduta la stirpe” –  i rōnin ricevono il premio – anzi, il privilegio – di una morte onorevole, recuperando, nell’attimo decisivo di una vita che si compie nella morte, la dignità di samurai.

Ogni anno, all’entrata del tempio Sengakuji di Tokyo, cioè nel luogo in cui si compì il destino dei quarantasette rōnin e in cui si trovano le loro tombe, semplici giapponesi arrivano da tutta la nazione per deporre fiori e ricordare il sacrificio di chi rimase fedele alla “via del guerriero”. Pur con tutti i limiti del film, vedere scene del genere a cinema non è cosa di tutti i giorni.

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Mario De Fazio

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