Storia. Sulla Repubblica Sociale italiana è tempo di far parlare i protagonisti oltre gli odii

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Mentre a Predappio, grazie ad un sindaco del Pd, si annuncia l’apertura di un museo dedicato al fascismo, a quando una lettura almeno “veridica” della Repubblica Sociale Italiana ? Ultimo tabù di una Storia, quella di Benito Mussolini e del fascismo, in larga misura “sdoganata”, il biennio saloino rimane ancora un “buco nero”, nel quale la comprensione degli eventi e dei protagonisti viene risucchiata dalla retorica delle celebrazioni, dalla strumentalizzazione del contesto, dalle ricostruzioni di parte.

Eppure, solo a guardare chi c’era e chi vi morì, tanto si potrebbe comprendere del periodo. Molti giovani, innanzitutto. Ai balilla che “andarono a Salò”, Carlo Mazzantini ha dedicato un bel libro autobiografico, dal quale traspare il senso di un’appartenenza, assunta senza imposizioni politiche, naturalmente condivisa dalla gente, in famiglia, a Scuola, perfino in Chiesa. La guerra continuava per gran parte di quei giovani perché era giusto che così fosse, nel nome della “parola data”, della Patria da non tradire, ancor prima delle alleanze.

Accanto ai giovani volontari e di una leva resa sciaguratamente “obbligatoria” ci sono molte figure emblematiche. C’è Giovanni Gentile, il “filosofo del fascismo”, ma amico di tanti intellettuali antifascisti, a cui aveva garantito, nell’Enciclopedia Italiana, libertà di pensiero, uomo della pacificazione e della concordia nazionale, trucidato, forse proprio per questo, il 15 aprile 1944 da un commando gappista. C’è Alessandro Pavolini, l’intellettuale raffinato, inventore del Maggio Musicale fiorentino, tra gli ideatori dei Littoriali della Cultura e dell’Arte, ministro della Cultura Popolare, che diventa l’anima radicale dell’ultimo fascismo. Ci sono poeti alla Marinetti (cantore della X Mas) e tecnocrati come Piero Pisenti, espulso, nel 1926, dal Partito Fascista per “eterodossia”, poi riammesso ed eletto deputato, che diventa Ministro di Giustizia, e Ruggero Romano, il padre della legislazione pensionistica per i reduci della I Guerra Mondiale, che sarà ministro dei Lavori Pubblici. C’è un docente universitario di larghe vedute come Carlo Alberto Biggini, nominato ministro dell’Educazione Nazionale, che, tra i suoi primi atti, decide il mantenimento dei rettori nominati da Badoglio ed emana un decreto attraverso il quale sottopone a revisione i ruoli degli insegnanti universitari e liberi docenti che avevano ottenuto i loro titoli per motivi esclusivamente politici durante il ventennio, ottenendo che gli insegnanti vengano esonerati dal giuramento di fedeltà alla RSI.

C’è l’aristocratico Principe Borghese ed il filosofo crociano Edmondo Cione.

E c’è Nicola Bombacci, tra i fondatori, nel 1921, del Partito Comunista d’Italia, quello a cui gli squadristi del primo fascismo cantavano “…con la barba di Bombacci faremo spazzolini, per lucidar le scarpe a Benito Mussolini”. A Salò Bombacci diventa l’ispiratore dell’azione sociale del nuovo fascismo repubblicano, della sua estrema testimonianza rivoluzionaria.

“Mussolini – scriverà Ermanno Amicucci (“I 600 giorni di Mussolini”, Roma, 1948) – voleva che gli anglo-americani e i monarchici trovassero il nord d’Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai difendessero, nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste socialiste raggiunte con la Rsi”. Il 22 Marzo 1945 il Consiglio dei ministri decide che si proceda entro il 21 Aprile alla socializzazione delle imprese con almeno cento dipendenti ed un milione di capitale. Il mito rivoluzionario del “potere ai lavoratori” diventa realtà. Non ci si limita però all’azione legislativa. All’interno degli spazi offerti da una situazione oggettivamente di emergenza e con i tedeschi preoccupati – come riferisce l’Ambasciatore Filippo Anfuso – a ritardare l’applicazione della legge “in considerazione dell’atteggiamento soprattutto inglese, che è volto a serrare le fila conservatrici in Europa contro i russi”, viene accentuata l’azione propagandistica. Nicola Bombacci ne è il principale fautore ed artefice, colui che spezza “il pane della socializzazione” fra gli operai, direttamente nelle fabbriche.

Egli non è un “teorico”, anche se viene riconosciuta la sua influenza nella stesura delle leggi socializzatici, che trasformano i lavoratori da semplici dipendenti a compartecipi della propria azienda. Bombacci è piuttosto un tribuno, secondo la migliore tradizione del socialismo italiano, capace, per conquistare con la ragione dei suoi argomenti, di toccare le corde del sentimento; di affascinare le folle, con la sua persona eretta, il volto incorniciato dalla tradizionale barbetta, il suo “apostolico” e carismatico entusiasmo. Tra il dicembre 1944 ed il marzo 1945 parla a Verona, Como, Busto Arsizio, Pavia, Venezia, Brescia, privilegiando sempre il contatto con il mondo del lavoro.

A marzo tiene una serie di incontri a Genova, durante una visita di cinque giorni, che assume un valore simbolico, sia per la città in cui avviene, culla del socialismo italiano (ma anche del “secondo fascio d’Italia”, fondato, nel 1919, a Sampierdarena, da un gruppo di operai di ispirazione sindacal-rivoluzionaria), sia perché vi pronuncia il suo ultimo discorso pubblico, ad appena un mese dai terribili giorni dell’aprile 1945: “Fratelli di fede e di lotta – dice rivolto agli operai – guardiamoci in viso e parliamo pure liberamente: voi vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent’anni fa. Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica sociale italiana è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi a rivendicare i diritti degli operai”.

Questa era la Rsi: strano impasto di morte e di ardore ideale, di giovinezza e di speranze rivoluzionarie. Furono tutti Santi ? Certamente no. Ma neppure tutte canaglie come qualcuno li vuole ancora disegnare. Erano, più correttamente, figli del loro tempo, tempo inquieto e contraddittorio come fu Bombacci, nato comunista e morto a Dongo con Mezzasoma, Pavolini, Barracu e tanti altri esponenti del fascismo repubblicano. Il suo ultimo grido, cadendo sotto la scarica mortale fu “Viva l’Italia ! Viva il Socialismo!”. Anche su questo, a quasi settant’anni dagli avvenimenti, è tempo di ragionare e discutere.

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Mario Bozzi Sentieri

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