Roma. Con la santificazione di Giovanni XIII e Giovanni Paolo II inizia la fase post conciliare

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Si chiude il Vaticano II. Il post, ovviamente. La canonizzazione dei due più importanti interpreti della vita ecclesiale del secondo dopoguerra mette fine – almeno idealmente – ad una fase decisiva della Chiesa contemporanea. Santificandola, quindi. Una storia che passa – manco a dirlo – dai Papi. E non solo perché Giovanni XXIII ha convocato il Concilio – rispolverando un progetto che prima ancora era di Pacelli – mentre Giovanni Paolo II lo ha in buona parte applicato.

Il motore di questo processo finale è Francesco. Un filo lega questi tre pontificati: il consenso. Sarà anche per questo che Bergoglio ha accelerato la canonizzazione dei due illustri predecessori. Roncalli diventa santo, per inciso, senza alcun miracolo riconosciuto (dettaglio ovviamente non necessario). Il criterio di valutazione è la tanto popolare, quanto antica, fama di santità.

Francesco è inoltre il primo pontefice a non aver preso parte ai lavori conciliari. Ma c’è dell’altro. L’argentino è anche il primo Papa eletto all’indomani del tabù superato delle dimissioni di un Papa. Ingrediente che rompe con un’immagine pre-esistente del soglio papale. Bergoglio è anche il vescovo di Roma che, con la duplice convocazione del sinodo della famiglia di ottobre, ha di fatto aperto quello che i vaticanisti hanno già definito, non senza criticità, il Vaticano III.

La Chiesa di Francesco è dunque una realtà profondamente lontana rispetto a quella che hanno vissuto e “rivoluzionato” i due nuovi santi pontefici. Il loro recinto ecclesiale era quello dell’unico, fino ad oggi, Santo Papa del’900: Pio X, l’autore della Pascendi. Il Vaticano della prima metà del novecento era letteralmente sotto assedio. E non solo in termini dottrinari, ma anche militari e politici. I bombardamenti su Roma e la visita straordinaria di Pio XII in una San Lorenzo sanguinante, sono la cifra di “una grande bellezza” al tramonto.

Il Concilio ha rappresentato una ripartenza. Un cambio di passo. Anche tra le tante ambiguità delle sue interpretazione. Francesco – come lui stesso si ama definire – è «figlio della Chiesa», e di di quella postconciliare in particolare. Un esponente della seconda generazione, più precisamente. Lontano dalla dialettica teologica degli anni trenta, dal conflitto tra il magistero romano e le cattedre universitarie degli interpreti del cattolicesimo a venire. Appunto perché la storia è sempre uguale, la sua azione pastorale è stata tuttavia in aperto contrasto con la dialettica in odore di marxismo della Teologia della liberazione. Una crisi, forse, anch’essa definitivamente riassorbita.

La Chiesa del post-post-Concilio è quella che si è autointerpretata come attrice di una rinnovata centralità della Chiesa romana. Una realtà in dialogo, per dirla nei termini di un Paolo VI ancora troppo poco capito, tanto quanto Ratzinger. Un atteggiamento che ha consegnato a Roma un nuovo primato: la guida della “reconquista religiosa” e quello di termometro della moralità mondiale. Insomma, una Chiesa contesa tra due spasimi, forse angoscianti, ma necessari: essere meno cattolica, ma più universale. Tanto sorridente, quanto spaventata del proprio bagaglio soprannaturale.

Il domani – diciamolo già da oggi – è arbitrario ed è tutto da scrivere. Come bussola può valere il monito di Giovanni XIII fissato nel Gaudet mater Ecclesia, discorso che aperto i lavori conciliari: “Dissentire dai profeti di sventura”. Questo non vuole dire acconsentire indiscriminatamente ad ogni vento futuro. Lo strumento di difesa della comunità ecclesiale resta, e deve restare, il discernimento (che è – sopra ogni luogo – degli spiriti). L’interprete – si torna sempre lì – sarà ancora il vescovo di Roma.

 

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Fernando M. Adonia

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