Cultura. Evola e il sacro visto e vissuto da un guerriero

evola_fotoSu Julius Evola si è scritto tanto, troppo. Molto spesso con un’eccessiva dose di nervosismo. A conti fatti, sulla vasta opera del pensatore romano si sono affaticate due diverse scuole ermeneutiche: quella del “sospetto” da una lato, e quella degli “apologeti” dell’altra. Per i primi, il filosofo della «Tradizione integrale» sarebbe l’ispiratore neanche tanto occulto di una fase drammatica della cosiddetta «eversione nera». Gianni Ferracuti, nella sua monografia su Evola, ci fornisce un quadro quanto mai esaustivo sull’impatto che Cavalcare la tigre, una delle opere cruciali del pensatore romano, sortì sul tessuto intellettuale delle epoca: «Un libro che ha suscitato aspre polemiche e che è stato considerato come il vangelo del terrorismo e dell’individualismo nichilistico di una destra violenta, immorale e anarchica. In realtà – è lo stesso Ferracuti ad aggiustare il tiro – l’opera non si occupa affatto di queste cose». Insomma, per molti è stato assai facile e scontato dipingere il filosofo tradizionalista con pennellate poco luminose. Dall’altra, è ineludibile un dato, anch’esso da maneggiare con cura: Julius Evola, per una folta generazione di giovani, quelli nati all’indomani del dopoguerra, è stato sicuramente un “guru politico”, se non addirittura un vero e proprio “maestro spirituale”, nonostante lo stesso Evola non si riconoscesse affatto in questo ruolo.

A quattro decenni dalla sua morte, lo si potrebbe affermare con una certa dose di serenità: Evola non fu affatto un cattivo maestro. Se c’è una responsabilità da ricondurre alle sue vicende editoriali, è semmai quella denunciata – non senza ragioni – dal giornalista e saggista Marcello Veneziani ne Il Giornale: «Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. Ma non perché istigasse alla violenza e al terrorismo, come pensarono alcuni questurini dell’ideologia, ma perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica. Fu la via d’accesso per entrare da destra nel dionisismo di massa che poi esplose nel ’68. O, per altri versanti, fu una password verso l’uso della modernità e dei suoi mezzi, quel “modernismo reazionario” di cui scrisse J. Herf. Chi cercò invece di restare nell’ambito della milizia politica, vide Cavalcare la tigre come un fiume di confine per tentare una sintesi tra il radicalismo rivoluzionario di destra e quello di sinistra, o anarco-comunista. L’ibridazione assunse vari aspetti, tra cui quello nazi-maoista, e affiorò nella fase iniziale del ’68, per poi lentamente dissiparsi nel livore partigiano degli anni Settanta. Alla fine prevalse l’individualismo, il rifiuto della politica, magari il culto dell’esteta armato, ma nella disperazione eroica e nel rifiuto stoico; genere Yukio Mishima, per intendersi. Quel libro divenne l’alibi per esperienze trasgressive, ma anche per comportamenti sdoppiati, quasi schizoidi o perfino per piccoli compromessi col presente. Fu un alibi sontuoso per cedimenti meschini o comunque umani, troppo umani».

L’analisi di Veneziani è pertinente. Solo, però, se calibrata sugli epigoni evoliani o – per carità – su di una parte di essi. Di Evola ci resta una certezza: dopo Cavalcare la Tigre, continuò a fare quello che aveva sempre fatto, soprattutto dopo le vicende connesse al secondo conflitto mondiale: scrivere, studiare, pensare e insegnare. L’inabilità fisica non gli permetteva altro, la sua volontà non puntava a nulla di più. Evola fu un’intellettuale dal valore indubbio. Si possono avanzare interrogativi sul contenuto delle sue opere, come è giusto che sia. Ed anche sulla sua metodica. Ma non sul suo spessore individuale, sul suo intuito e sulla sua sensibilità. Evola assiste a un epoca prossima alla quasi totale eclissi del sacro, così lui credeva. E si ribella a tutto ciò, lanciando un grido tanto disperato quanto articolato. Lo fa sulla scorta di una sacralità che precede in termini temporali il cristianesimo. Evola pensa il sacro dal punto di vista di un guerriero, facendo riaffiorare dai meandri della tradizione occidentale alcune tracce di memoria date ormai come obliate. Insomma, in Evola passa buona parte della crisi della coscienza europea e, senza esagerazione, mondiale.

Tolti alcuni studi assai meritori, si pensi a quelli di Gianni Ferracuti o di Piero Di Vona, di Evola, il mondo scientifico ha preso in considerazione solo alcuni aspetti assai stucchevoli della sua opera. Il pensatore romano è rimasto incastrato dentro una disputa poco fruttuosa, e a tratti scandalizzata, tra opposti estremismi. Ma la sua vicenda umana supera di gran lunga una sipario simile. Insomma, nel momento in cui vari impulsi vorrebbero il superamento delle discipline storico filosofiche in funzione di una più ampia storia delle idee, il suo contributo merita di essere “ufficializzato”.

Del particolare Tradizionalismo evoliano ci sono due aspetti che meritano ancora un’analisi urgente. Da un lato, ci sono – ovviamente, diremmo – i suoi statuti e il suo contenuto specifico. Dall’altra c’è invece quell’apparato di studi in campo orientale e non che ne prepararono l’impianto. Oltre all’Evola filosofo (sinonimo di pensatore) c’è un Evola che studia le dottrine orientali e che indaga il pensiero esoterico da più prospettive. Ecco, Evola può essere definito come uno storico del pensiero esoterico, se può passare come dicitura. Anche in questo caso, tra i suoi testi possono essere denunciate delle imprecisioni. Ma, come verrà spiegato, non si può negare che in Italia, su questo particolarissimo campo disciplinare, i cui statuti epistemologici non sono stati ancora formalizzati, sia stato davvero un pioniere. E parte delle sue intuizioni sono state accolte successivamente, con un consenso quasi unanime, dagli addetti ai lavori. Degna di citazione è la chiosa di Luca Gallesi su «Il Giornale» dell’8 agosto 2013, che scrivendo di esoterismo puntualizza: «La commistione di pensiero alto e bassa superstizione caratterizza soprattutto la prima metà del secolo scorso, quando fiorirono scuole, gruppi e riviste di esoterismo, attingendo prima all’opera di occultisti come Eliphas Levi e Papus, e poi di personaggi più presentabili come Reghini, Evola e Guénon». Ecco, da qui si può procedere in favore di uno studio rigoroso rispetto ai fenomeni che attraversarono il primo Novecento.

*dalla premessa di Fernando Massimo Adonia, Julius Evola. Un pensiero per l’età oscura. Acireale-Roma, Tipheret, 2014.

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Fernando M. Adonia

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