Le dimissioni di Benedetto XVI ci richiamano alle tempeste spirituali del nostro tempo

benedetto xvi

Ho sentito nella voce del Papa l’affanno dei secoli e nei suoi occhi che evitavano di incrociare lo sguardo del mondo sembrava celarsi un segreto.

Non è solo un evento storico l’annuncio del Papa e non suscita solo emozione e sorpresa, come ripete il cicalare dei media. Anzi di sorpresa ce n’è poca, di rinuncia al papato, Ratzinger aveva già accennato. Ma c’è qualcosa di più grande e di più misterioso nella sua decisione e sfugge alla vista del tempo. Non confondiamo le occasioni che lo hanno portato a dimettersi con la causa ultima. Le occasioni o le cause prossime del suo gesto saranno state la fragilità di un uomo costretto ad affrontare aspre battaglie, micidiali bassezze e ostilità, ad accollarsi sulle sue spalle minute, enormi responsabilità pastorali ed epocali; e poi quei fogli volati coi corvi e finiti chissà in quali mani; inchieste, complotti, ricatti e maldicenze. Hanno caricato sulle delicate spalle di Ratzinger perfino i due ultimi grandi tabù del nostro tempo, la bestia nazista e la libertà omosessuale, cercando di rimestare nel torbido, attaccandosi alla sua giovinezza tedesca, a oscure dicerie o alle tristi vicende della pedofilia in abito talare. Saranno quelle le cause prossime del suo abbandono; non ha retto, non ce l’ha fatta, non era un gladiatore di Cristo e nemmeno un milite tedesco ma un mite teologo dalle piume di cristallo. “Pietro era infatti inesperto delle cose umane, che aveva trascurato per l’assidua contemplazione di quelle divine” scrive nella stessa lingua latina un cronista d’eccezione, Petrarca, parlando di Celestino V che si dimise da Papa.

Ma per un grande custode della dottrina, come è Joseph Ratzinger, per una mente acuta e implacabile come la sua, c’era un altro macigno che pesava sulle sue deboli spalle. E’ la percezione della catastrofe spirituale del nostro tempo, lo spettacolo di un’abissale sordità del mondo alla vita, alla missione e alle aspettative della fede. Nel suo invecchiare si rifletteva la tremenda vecchiezza della Sposa di Cristo, la Chiesa, il suo indebolirsi e piegarsi nell’arco di pochi anni. Chiese deserte, vocazioni calanti, sacerdoti che vacillano nella fede, il cinismo che cresce. E allora cresce il dubbio che Ratzinger si sia trascinato in questi anni un terribile segreto che non vuole e non può esplicitare: lo spegnersi della fede cristiana e l’impossibilità di fronteggiare il deserto che avanza. Da qui l’eutanasia del papato. Le sue dimissioni rispecchiano la ritirata della Chiesa dal mondo, il suo sbiadire, arrendersi in Europa e arretrare nelle periferie popolose della cristianità. Dimettendosi, Ratzinger non è sceso dalla Croce, come diceva Woytila sostenendo che si porta la croce del Papato fino alla morte. Ma non è lui, è il mondo che ha rimosso la Croce. Le parole di Ratzinger pronunciate in latino accentuano il fossato incolmabile che le separa dal proprio tempo, esprimono con asciutto lindore tutta la portata drammatica dell’annuncio. Il latino le scolpisce nel marmo del passato, le rende lapidarie e irreversibili.

Se guardiamo al pontificato di Benedetto XVI e alla sua precedente attività di prefetto e teologo, ci accorgiamo di due opposte strade da lui seguite, ambedue con straordinaria lucidità. Da un verso, il rigoroso difensore della fede, dell’Auctoritas e della Tradizione contro la dittatura del relativismo; dall’altro il tormentato filosofo che si confronta con l’ateismo e riapre i conti con Nietzsche, con Heidegger, col pensiero contemporaneo. Lui che è stato il più strenuo difensore della Tradizione, lui che il filosofo cattolico Del Noce definiva “il più alto esempio di cultura di destra”; proprio lui, si è affacciato nelle terre incognite del tormento e dell’ateismo più di ogni altro papa. Arrivò a dire di recente che un inquieto cercatore privo di fede è più vicino a Dio di un devoto per abitudine, così sconfessando millenni di fede per forza d’inerzia e milioni di fedeli per routine. Più di recente è arrivato a dire che la verità non abita dentro di noi, nessuno la possiede; ma la verità possiede noi, noi siamo dentro la verità. E dunque nessuno detiene il monopolio della verità e può decidere nel nome della verità, ma noi nuotiamo dentro la verità e a volte non ce ne accorgiamo. A ben vedere, è una rivoluzione rispetto alla fede insegnata nei millenni, ma anche rispetto a chi parte all’infinita ricerca della verità, ritenendola irraggiungibile, e non si accorge di essere dentro il suo alone. E ora con le dimissioni è un paradosso che il Papa della Tradizione spezzi una tradizione secolare e inneschi un’assoluta novità, il papa dimissionario che vive nell’ombra in Vaticano, da Papa emerito, come si dice per gli ex-presidenti.

Ratzinger ha saputo come pochi unire certezze e inquietudine, tradizione e ricerca, fede e ardimento intellettuale, scarsamente compreso dal mondo e dal tempo. Forse più amabile del suo grande predecessore ma meno amato.

Hanno detto che la sua decisione è maturata in serenità. “Egli fuggì con grande gioia – scrive Petrarca – portando negli occhi e sul volto i segni della letizia spirituale quando si allontanò dal concilio, come se avesse sottratto le sue spalle non a un peso modesto, bensì il collo a una terribile scure, sicché risplendeva sul suo viso un non so che di angelico”.

Le sue dimissioni sono la testimonianza più alta e sofferta della società senza padre in cui viviamo. L’ultimo Padre si è dimesso e lascia il posto vacante, che sarà presto colmato in una Pasqua di Resurrezione. Ma quel gesto ci richiama alle tempeste spirituali che stiamo vivendo e di cui non sempre ci accorgiamo fino in fondo. Sarà un tempo di nani, eppure urgono giganti.

Intanto ci mancheranno i suoi sguardi di spaventata dolcezza, di trattenuta mestizia, la sua scarsa dimestichezza con le cose del mondo, il suo disagio di vivere nello splendore regale. Il suo sguardo si scusava col mondo e suggeriva agli astanti: sono solo un pensatore che regge le sorti di un Pontificato.  A volte si abbandonava più sereno ai sorrisi o si atteggiava a un’affabile severità che lo rendeva assai somigliante a Paolo Stoppa quando interpretava il Papa Re.

Ma alle ore venti del prossimo 28 febbraio, cercheremo nello sguardo di Joseph Ratzinger “quel non so che di angelico” di chi si libera del peso del mondo e raggiunge la solitudine dei celesti.

* da Il Giornale del 12 febbraio 2013

Marcello Veneziani

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