Calcio. Antonio Conte l’arcitaliano che non vuole perdere mai

Ha la rabbia come colonna sonora, la vittoria come ossessione, il campo come mondo. Antonio Conte è un cannibale che può essere battuto solo dai suoi errori, si è mangiato il campionato italiano e ora prova a mangiarsi l’Europeo. Una specie di Jordan Belfort, il DiCaprio in “The Wolf of Wall Street”. Conosce il linguaggio del calcio, i suoi principi, prima ancora dei moduli. Spietato, grintoso, ostico. Non sarà mai uno di quelli simpatici con la storiella in conferenza stampa, quando ci prova gli viene male. «Agghiacciante» è il tormentone che lo perseguita – complice Maurizio Crozza – ma è ancora l’intercalare che lo racconta meglio quando gli gira male.

C’è anche nel libro di Pirlo: «Il primo giorno di ritiro, ha convocato la squadra in palestra e si è presentato. Aveva già il veleno addosso: “In questa squadra, cari ragazzi, si viene da due settimi posti in campionato. Roba da pazzi, agghiacciante. Io non sono qui per questo, è ora di smetterla di fare schifo”». Allenatore incontentabile, lamentoso perché mai soddisfatto, forse perché è stato un calciatore normale, centrocampista che segnava, capace di fare acrobazie e saltare l’avversario, molto sfortunato. «Non nego che non ho mai pensato di essere un grandissimo giocatore. Mentre ho sempre saputo che sarei diventato un allenatore. Era una vocazione. Sono portato a dare un indirizzo. Un metodo. Indicare una squadra. Prendere le decisioni».

Da calciatore ha perso tre finali di Champions contro Milan, Real Madrid e Borussia Dortmund; una coppa Uefa contro il Parma e una coppa Italia contro la Lazio; la finale ai Mondiali negli Usa e quella degli Europei a Rotterdam. Vive con la paura di ri-perdere, per questo non si ferma. «Perdere? Come morire. Quello che conta, a casa mia, sono le vittorie. Chi vince scrive e fa la storia, gli altri possono solo fare chiacchiere». È un reduce che tornato in trincea sa dove guardare, da che parte arriverà il fuoco, e cerca in ogni modo di riscattarsi. È un diffidente, ha il suo clan e si affida sempre a loro: i fratelli Gianluca e Daniele, i compagni Alessio e Carrera. Adesso del blocco Juve in Nazionale.

È un arcitaliano, esibizionista, emotivo, molto elastico nelle situazioni da baratro. Sa prendersi le colpe quasi quanto sa lagnarsi degli altri. Nel passaggio dalla Juventus alla Nazionale sta provando a mettere distanza, a controllare la sua ossessività sportiva. Anche la sua scarsa propensione al compromesso. Capace di imporsi fuori e dentro lo spogliatoio, è il contrario di Prandelli. È quello sporco, che ha vinto con la squadra più odiata del campionato italiano. Deferito dalla Procura Federale, l’accusa era di omessa denuncia in relazione alle partite Novara-Siena 2-2 e Albinoleffe-Siena 1-0 del campionato di Serie B 2010-11. Condannato a 10 mesi di squalifica, pena poi ridotta a quattro mesi dal Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport. Assistito della Gea, capitano della Juve di Moggi, ha orbitato nella sua Toscana con Arezzo e Siena, ma è a Bari che ha dimostrato di essere un allenatore prima ancora di un assistito. «Alla Juventus chiesi di poter allenare la Primavera. Non ho avuto questa possibilità e di questo sono rimasto piuttosto male. Per molti anni il mio procuratore è stato Alessandro Moggi, figlio di Luciano, e con me si è sempre comportato benissimo. Sono stati gli altri procuratori, quelli che ho avuto prima di lui, che semmai non si sono comportati benissimo. Quello che mi è capitato è comunque la dimostrazione che l’essere assistito dalla Gea non mi ha mai garantito canali privilegiati rispetto agli altri».

Ci fosse una scala costruttiva del suo essere allenatore sarebbe: Fascetti: «mi ha trasmesso la fiducia nei giovani», Mazzone «il carattere», Trapattoni: «Senza di lui non sarei rimasto tredici anni alla Juventus», Lippi: «ambizione e cattiveria agonistica», Sacchi: «un rivoluzionario». Anche se lui vorrebbe essere Mourinho, è evidente, ma gli mancano ancora il controllo delle situazioni, la Premier e la Champions League. Estremo con se stesso, sa come ricavare il meglio dai suoi calciatori, persino bordeggiando la tenerezza, chiedete a Gigi Buffon.

Da calciatore si vedeva la sua grinta, meno i suoi pensieri, eppure già allenava: «Avevo vent’anni, stavo nel Lecce e allenavo la squadra della scuola elementare di mio fratello Daniele che di anni ne aveva dieci». È molto meridionale, anche se viene dalla regione del sud più nordica: la Puglia, «Sono credente, praticante. Da bambino sono stato anche chierichetto. Faccio il segno della croce prima di mangiare». Fissato con regole e rispetto, lo sta scoprendo Balotelli, ad ogni mancata convocazione: per quante foto in famiglia possa twittare, rimangono le chiamate che non arrivano. Dietro l’aria da duro, Conte è un romantico, ha impiegato dieci anni per dare un bacio ed altri nove per sposare Elisabetta Muscarello. «Aveva 16 anni quando la vidi la prima volta. Era troppo piccola». Uno che sa aspettare, lo ha dimostrato in panchina, nella vita e in campo. È l’uomo in più, non lascerà mai solo un suo calciatore, che sentirà le sue urla arrivargli addosso, indicargli gli spazi e i movimenti, con la determinazione di un fiume. Che è sempre una storia che corre. (da Il Mattino)

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Marco Ciriello

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