DaSinistra. Sansonetti: “Sette anni di Pd, il partito che vince quando muore la politica”

pd1(Pubblichiamo l’editoriale de Il Garantista con il bilancio del settennato del Partito democratico in Italia a firma del direttore Piero Sansonetti)

Oggi è il settimo anniversario della nascita del Pd. Era l’ottobre del 2007. Da allora il Pd ha cambiato quattro segretari e quattro tra premier e candidati premier. Veltroni, Franceschini, Bersani, e Renzi; e poi c’è stato Letta premier. Ha tenuto tre grandi tornate di primarie, tutte vinte con forte partecipazione di popolo dai suoi leader (Veltroni, Bersani e Renzi che hanno distanziato di molto i loro concorrenti). In questi sette anni il Pd ha aumentato molto i suoi consensi sul piano elettorale (da circa il 33 per cento di Veltroni al 41 per cento delle europee), beneficiando del crollo di Berlusconi, affondato dai giudici, e ha molto diminuito, però, il numero degli iscritti, che è precipitato da circa un milione a circa centomila.

Proviamo a fare un bilancio politico di questo ”settenato”, senza ancorarci ai numeri.

I dati positivi, a occhio, sono due. Il primo è la scoperta di un leader nuovo, brillante, molto apprezzato da gran parte della borghesia e anche del ceto medio, forte, tanto da avere in breve tempo spazzato dai piani alti della politica tutta la generazione tra i cinquanta e i settant’anni. Il secondo dato positivo è il forte balzo elettorale, che lo ha posto in una condizione nella quale è probabile che possa governare per un tempo non brevissimo.

I dati negativi, sempre ad occhio, sono tre. Il primo è il crollo della partecipazione popolare, che ha trasformato questo partito (erede dei due colossi della prima Repubblica, Dc e Pci) in una struttura essenzialmente elettorale e di governo, che però non permette la partecipazione di massa e che esclude il popolo da qualunque possibilità di influire sulle decisioni e sul governo del paese. Il secondo dato negativo è la vaghezza del programma politico e la mancanza di una idea di società. Il terzo dato negativo è la fragilità del suo gruppo dirigente, del tutto inadeguato alla grandiosità dei compiti ai quali il partito è chiamato e “surrogato” dalla statura (e dalla onnipresenza) del suo leader.

I dati positivi sono incontestabili e non hanno bisogno di commenti. Si potrebbe dire: un partito che riesce a governare e che ha un forte appeal elettorale ha tutto. Il resto è chiacchiera, utopia, intellettualismo. Può darsi. I suoi dati negativi però hanno tutti a che fare con la sostanza della democrazia. Prima di provare ad esaminare questo problema, che è grandissimo, poniamoci un’altra domanda: la svolta “efficientista” e leaderistica è stata imposta da Renzi? Probabilmente no. Era nel ”dna” del partito fondato da Veltroni. Il quale si pose questo semplice obiettivo: portare una sinistra moderata al governo, senza più condizionamenti estremistici, e con la benedizione della grande borghesia italiana, stanca della “dittatura” del cavaliere. Veltroni aveva fondato questo suo progetto politico su due pilastri. Il primo era un programma politico “duttile”, libero da ogni ideologia e sostanzialmente favorevole agli interessi della classi dirigenti di un capitalismo che smaniava per recuperare la sua libertà – anche la sua “selvaggezza” – dopo il periodo del potere populistico berlusconiano. Veltroni non si è mai posto come alternativo rispetto alla classi dirigenti, si proponeva semplicemente come soluzione di ricambio al vecchio e logoro gruppo di potere berlusconiano. Il secondo pilastro del veltronismo era la cosiddetta democrazia di mandato. Termine, all’epoca, usato da tutti. Per dire cosa? Riduzione del dibattito, della partecipazione e del peso del pensiero politico, e aumento della delega e del potere dei gruppi dirigenti e in particolare del leader.

Veltroni perse alle elezioni, battuto da Berlusconi, ma il suo disegno non fu cancellato. Veltroni fu mandato via dopo la sconfitta alle europee del 2009, ma al suo posto entrò il suo vice, e quando un anno dopo si fece un congresso, e nuove primarie, e fu eletto Bersani, nessuno mise in discussione la linea politica e l’impianto di Veltroni. E così è stato nei passaggi successivi: con Letta, con Renzi. Semplicemente Renzi è riuscito a portare al successo il disegno di Veltroni. E’ il suo merito, se volete, o se volete è la sua colpa. Veltroni voleva il partito americano, e per questo lo aveva chiamato così, con la sua idea fissa dei Kennedy, e poi di Clinton e Obama. Renzi ritiene di aver realizzato il partito americano, di essere l’erede di Clinton e anche di Blair.

Però non è vero. Il Pd non c’en- tra niente con i democratici americani. Non c’entrava quello di Veltroni, non c’entra quello di Renzi. Per una ragione molto semplice: il partito democratico americano vince quando vince la politica. Il Pd vince perché la politica si ritira, rinuncia, viene sostituita da altri poteri.

Oggi la differenza enorme che c’è tra l’America e l’Europa è che lì, negli Stati Uniti ( e in tutto il continente americano), la politica ha vinto, è stata più forte anche della crisi. Ha mantenuto il comando. Qui si è arresa. E ha accettato anche che l’ideale dell’Europa mettesse in mora la democrazia, la sua pratica e i suoi principi essenziali.

Oggi da noi la democrazia è sospesa. In America è fortissima. E persino i fenomeni reazionari, che da noi si concretizzano nell’antipolitica, lì oltreoceano vivono di democrazia, si innestano saldamente nella democrazia. Il grillismo, il leghismo, il lepenismo, traggono linfa dall’antipolitica, costruiscono su quel terreno il loro successo. Il tea party americano difende la democrazia e si batte su quel piano, e su quel piano cresce, si rafforza, spera di vincere.

Ad Obama si possono fare tutte le critiche che si vuole. Ma lui fa politica e conduce battaglie politiche. Ha fatto la riforma sanitaria sconfiggendo una formidabile opposizione di destra. Cioè ha costruito la sua amministrazione sull’idea che la modernità fosse maggior protezione sociale – in contrasto con il reaganismo – e non meno diritti. Poi siamo liberissimi di dire che non ci piacciono le battaglie di Obama – per esempio l’innalzamento del salario minimo, per esempio l’intervento massiccio dello Stato per arginare la crisi – o la sua politica estera, opposta a quella di Bush: ma nessuno potrà mai dire che Obama ha ritirato in secca la politica e non ha lottato sul campo della democrazia.

La differenza tra la politica americana – viva – e quella europea – morta – è gigantesca.

Probabilmente è dovuta a una circostanza sola: da noi il crollo, la fine del socialismo, la scomparsa del movimento operaio, ha terremotato tutto. Persino la destra è uscita terremotata. La fine delle ideologie, delle illusioni, ha portato alla disfatta della politica e alla fine anche della democrazia. In America la lotta politica si è basata sempre su altri punti di riferimento. Il socialismo non è mai stato una prospettiva. La divisione era -ed è – tra liberali di destra e di sinistra. Tra fautori di un capitalismo moderno e sociale, in buona parte controllato dalla stato, e reaganiani, convinti che la modernità invece stia solo nella libertà del mercato, nell’assenza di Stato. La fine del comunismo e del socialismo non hanno cambiato gli orientamenti politici dell’America. Nessuno è rimasto orfano. L’Europa invece ha reagito con una brusca sterzata a destra dello spirito pubblico. E’ tutta qui la difficoltà del Pd. E’ un partito nuovo, di sinistra, che nasce in un ambiente di destra, e vuole adattarvisi, e governarlo. Può farlo rinunciando alla democrazia politica, o comunque mettendone in secondo piano il valore e sosti-uendola col leaderismo? O fingendosi partito americano quando non lo è affatto? Può darsi che possa, ma a me non pare probabile. Renzi, se riesce a vincere questa scommessa, entrerà nella storia. Se non la vince rischia di avere creato dei danni che serviranno decenni per riparare.

* da Il Garantista

Piero Sansonetti

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