Storie di Calcio. Donde está el niño Guzmán?

calcioGli argentini quando parli di calcio ti rispondono con un assioma: «Maradona è il calciatore più forte del mondo ed è solo uno dei migliori calciatori argentini». Voi ridete, e poi domandate, e chi sono gli altri? Fuori i nomi. Se non siete fortunati, avrete nomi che conoscete: da Alfredo Di Stefano a Mario Kempes, passando per Osvaldo Ardiles, Omar Sivori, fino a Messi, Tevez, Higuain qualcuno dirà persino Valdano o Verón, Batistuta, Redondo, Riquelme, e ne dimentico molti, l’elenco può durare ore,i sentimenti si declinano sempre in forme inaspettate, inaudite.Se, invece, è il vostro giorno e di fronte avete l’uomo giusto, la risposta sarà: Javier Felipe Guzmán. Rimanendo in silenzio, dopo la smorfia di soddisfazione del vostro interlocutore che, pensando, eccone un altro da battezzare, vi guarderà dall’altare e vi umilierà dicendo: Ma come non conosci Javier Felipe Guzmán? E davanti al vostro diniego partirà la storia. Confusa, assurda, assoggettata alla fantasia di chi ve la racconta, non sarà mai la stessa, quello che avranno in comune tutte sarà lo sperpero del talento, l’assurda rinuncia e la convinzione che vi stiano prendendo in giro. Poi, reagirete dicendo: è una storia di Osvaldo Soriano, vero? Infine, smetterete di chiedervi se sia vera o meno, perché non ha più molta importanza, Javier Felipe Guzmán avrà dribblato anche la vostra reticenza, conquistato la vostra curiosità e scalato rapidamente la vostra personale classifica dei calciatori da amare, lo piazzerete tra Best e Cantona, nei pressi di quelli come Lentini che sono andati sulla fascia per crossare e non solo non l’hanno fatto ma nemmeno sono tornati non tanto a marcare ma proprio a giocare e ricominciare, oppure no, direte: è unico, e gli troverete uno spazio a parte, un campo tutto suo e quando vi chiederanno di raccontare i vostri calciatori, vi rivenderete la storia, come ora sto facendo io, fottendovene degli scettici e dei malfidenti, ovvio, se qualcuno di voi la conosce avrà una versione differente, io, per dire, mi sono trovato a chiederne l’esistenza a César Menotti, e vorrei domandare a Valdano di scriverne (forse l’ha fatto e non l’ho trovato), in generale ogni volta che vado in Argentina ne chiedo a tutti, per ora ho tre versioni di questa storia che aumenteranno, statene certi, alla prossima ce ne sarà una quarta e così via andare. Perché non vado da lui? Perché non c’è più, è sparito, e anche se ci fosse non c’andrei, amo le storie, mica la verità, la verità è una invenzione della religione, serve ai governi e ai giornali, ai tribunali e agli innamorati. E soprattutto perché niente più di Javier Felipe Guzmán ricorda Aureliano Buendìa, anche se lui per i campi somigliava a un Best più alto che beveva solo Coca-Cola, un Gigi Meroni senza istruzione che non ha mai portato a spasso una gallina ma solo il suo pigro talento. In realtà quello che gli somiglia tanto è Pastore, almeno per me, anche se hanno storie differenti, Guzmán non credo che avrebbe scelto Parigi. Ma questa storia è un romanzo orale e nelle prossime versioni ci sarà pure chi scriverà dell’esilio di Guzmán a Parigi, o della fuga in Italia forse a Napoli o a Palermo. Quello che so e che per ora è un punto fermo è che nacque a Rosario e non per caso. Il padre di Javier, Patricio Guzmán, agente farmaceutico che girerà tutto il paese, arrivò a Buenos Aires da Córdoba dove rimase poco, e si stabilì, invece, a Rosario dove conobbe Cristina Blanco, che diventerà sua moglie e poi la madre di Javier, primo di tre figli (seguiranno Alejandro e Ana). Nasce il 24 agosto del 1964 a Rosario, dove il calcio è una cosa differente, si parla di scuola rosarina, qui sono nati Carlos Menotti e Marcelo Bielsa, Leo Messi e Angel Di Maria, Gerardo Martino, persino Icardi e soprattutto sono nati qui Ernesto Guevara e Lucio Fontana, in modi diversi due che avevano una visione dispari del mondo, altra, per nulla ripetibile. Il Che voleva rovesciare il potere, Fontana rovesciò lo spazio gli aprì una strada nuova. Ecco, in mezzo a quest’aria nasceva Javier Felipe Guzmán, che però non giocherà nelle squadre della città, ma per il Club Atlético Colón, per via dello zio che faceva il custode al campo. E si rifiuterà sempre di lasciare Santa Fe, e quando la società davanti a una proposta del River, che no, non si poteva rifiutare, lo obbligherà, lui lascerà il calcio a soli 24 anni (due settimane prima di sparire), nonostante le rivolte dei tifosi per strada, l’esercito chiamato a sedarle e il risentimento che rimarrà tra i sostenitori della squadra e la dirigenza, e che ancora oggi nelle giornate sbagliate torna a galla. L’espressione «No Olvidamos» a Santa Fe è Javier Felipe Guzmán, niente altro. Non si conoscono i motivi della sua scomparsa, non era certo Rodolfo Walsh, sicuro qualche compagno come Patricio Mendoza (difensore) anni dopo racconterà del suo essere anarchico e insofferente a tutto, persino agli schemi che accettava mal volentieri, ma non ci sono prese di posizione pubbliche contro Videla, eppure, è sparito nel nulla come altri. Desaparecido. Portandosi dietro anche la possibilità di giocare quel Mundial poi vinto, sì, perché Menotti voleva tirarlo in rosa, farlo crescere, e quando qualcuno gli chiede di Javier Felipe Guzmán deve far ricorso a tutto il suo orgoglio per non farsi morire le parole in bocca, e trattenere le lacrime, forse sa qualcosa di più, sempre poco, ma sa che ci fu l’ordine di andare a prenderlo. A Santa Fe nei bar, dove le discussioni sul calcio possono durare come mani di poker, c’è chi dice che il rifiuto di Guzmán venne visto come un gesto per indicare altro, c’è chi dice che Massera fosse del River e non avesse sopportato la cosa, e ormai anche i dirigenti della squadra che trattarono l’affare sono morti, morto il procuratore, un italiano, Ernesto Marchetti «che scoprì Passarella», e quello che resta sono ipotesi, oltre i gesti lasciati sui campi da Javier Felipe, centrocampista. La sua eleganza nello stoppare il pallone, i suoi colpi di tacco, non tanti gol, le statistiche dicono trentuno (di cui quattro su punizione, nessun rigore), sette più della sua età, che però la gente ancora ricorda, come ricorda la sua faccia, e la curva che gli appariva sulla guancia sinistra quando sorrideva, uno scippo. La sua storia si stava perdendo, per dire i ragazzini non ne sapevano nulla ma grazie allo scrittore Rodrigo Frésan che ne ha fatto un libro “Esta noche juega Javier Guzmán” (Alfagrama), è stata salvata e resterà per sempre, ancora in tanti lo includeranno nella formazione fantastica delle preferenze personali, e senza averlo mai visto giocare. In alcune foto ha la barba, in altre i baffi, ed è buffo, si vede che li lasciava crescere per le trasferte più difficili, per le partite dove bisognava dimostrare di avere esperienza oltre che tecnica, e nessuna paura. Quello che davvero torna in tutte le dichiarazioni su di lui, è la testa alta, dalla quale discendevano i movimenti del corpo, l’eleganza, anche la lentezza: un momento prima che l’avversario ti prenda la palla, e un momento dopo l’inutile velocità che non porta a nulla. Era fuori dai cardini del tempo. Il lento gesto circolare, capace di aggirare i difensori e poi il guizzo capace di lasciarli dietro o di lato a chiedersi: Ma come ha fatto? Non era solo un calciatore era una transizione, stava cambiando il paese e stava cambiano il calcio. Le cose spiacevoli diventavano educative. Forse lo sapeva, forse no. Non ha molta importanza. Quello che conta fu il gesto di Alberto Tarantini che nella festa per il Mundial vinto, chiese a Videla che fine avesse fatto Javier Guzmán. Non ebbe risposta, e rischiò la vita, ma la sua domanda: «¿Donde está el niño Guzmán?» apparve su tutti i muri di Buenos Aires, poi divenne una canzone, infine un modo per indicare oltre che una situazione disperata, una grande perdita. Ma tutto questo non ha mai fatto dimenticare il calcio, e le gesta di Javier, della sua finta lenta, della precisione sia di tiro che di passaggio, un «calciatore gotico» mi disse una volta un tassista, che non so bene cosa voglia dire ma suona e rende l’idea. Forse perché portatore di una tenebrosa leggenda, quella di un talento inamovibile che non vince nulla ma regala bellezza per i campi e poi sparisce – certo, contro la sua volontà – consegnato alle urgenze della morte. Ma condensata nella sua storia c’è il calcio vero, quello che Gareth Bale sta cancellando con le sue corse sulla fascia, quello del mercato e dell’omologazione dei gesti. Javier, no, Javier è ancora una possibilità, quella di aspettarsi un cross diverso, una discesa che non ti aspetti e che no, non era prevista negli schemi, è un No a un trasferimento dove tutti direbbero SI, è la propensione a stare sulla fascia anche nella vita, lontano dagli addensamenti d’area e di pensiero. È gigiriva d’Argentina e ancora non basta, e senza nemmeno uno scudetto o Scopigno. È avere nelle scarpe non solo il talento per stoppare un pallone e avviare un contropiede ma pure la riluttanza di non farlo, è il puro piacere di giocare a calcio senza gli obblighi professionali e quelle altre cazzate là, quelle che forse gli sono costate la vita. «Ha fatto troppo rumore quel ragazzo» mi ha detto lo scrittore Marcelo Birmajer, «era come avere una slavina fissa tutti i giorni sul fianco della tua montagna». Però la sua identità è dispersa per i campi e ogni tanto qualche ragazzino la raccoglie su un cross, la mette in porta senza guardare o si gira, guarda e la pizza uguale. Mi ritrovo a pensarci ogni volta che guardo una partita su un campo improvvisato, ogni volta che riesco a sentire l’entusiasmo per il calcio che ormai negli stadi non sento né vero, e devo sforzarmi di cercarlo in piccoli gesti che riconosco come falsi e devo reinventare per i giornali. Non è scomparso per caso, questo lo so, non è solo un desaparecido, no. Con questo non sto dicendo che la sua sparizione conti di più delle altre, dico solo che si porta dietro un mucchio di significati. Era l’improbabile, e di calciatori votati all’improbabilità per scelta e non per inettitudine forse ne ho visto uno in Costa D’Avorio, una volta che mi avevano mandato a raccontare il nuovo calcio africano, poi più nulla. E chissà se dalla sua parte d’abisso, Guzmán, ora vede il centrocampo.

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Marco Ciriello

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