Gli sconfitti. Il tracollo di Fini, annegato tra velleità futuriste e il loden del banchiere Monti

gianfranco_fini_gesticola“Non voglio An in piccolo, ma un Pdl in grande”. Così parlo Gianfranco Fini. Era l’ottobre del 2010. Sono passati poco più di due anni ed eccolo “il Pdl in grande”, il risultato raggranellato da Futuro e Libertà alla Camera: 0,46%. Poco più di Casa Pound, di Forza Nuova, della destra più o meno neofascista dalla quale il successore di Almirante ha fatto di tutto per distinguersi. Al danno si aggiunge poi la beffa di rimanere senza poltrona parlamentare, dopo trent’anni, a meno che non si verifichino miracolosi ripescaggi dell’ultimo minuto. Perché questa disfatta? E’ presto detto: per mancanza di coraggio, di idee, di onestà intellettuale.

Torniamo indietro ai quei giorni di fuoco, quando venne forgiato il partitino di Fini. Quali erano le parole d’ordine? Appunto futuro e libertà. Proprio sul “fare futuro”, sul Futurismo di Marinetti si erano coagulati gli intellettuali finiani. Insomma, si cercava di far rivivere un momento glorioso e gagliardo della cultura italiana. Per non dire di Ezra Pound. Fini lo citava nei comizi, non pescando qualche verso significativo dei Cantos, ma riciclando la solita frase sull’uomo che se non è disposto a battersi per le sue idee eccetera eccetera. Probabilmente quella frase l’aveva letta da ragazzo, stampata su di un poster del Fronte della Gioventù ideato da Sergio Caputo. Dubitiamo fortemente che Fini sia un fine conoscitore dell’opera poetica e saggistica del genio statunitense. Erano comunque riferimenti forti, Marinetti, Pound, Berto Ricci e tutto il Fascismo di sinistra con la nobile aspirazione a superare la contrapposizione fra progressisti e conservatori. Con tali richiami, anche se ancora superficiali e sloganistici, era possibile addirittura fare breccia sull’elettorato giovanile, su una fetta del proletariato intellettuale ad oggi privo di rappresentanza. Non osiamo dire che Fini poteva diventare una specie di Limonov italico, per carità. Ma tracciare il solco per far avanzare qualcosa di maggior spessore dopo di lui era possibile.

Ma quando è arrivato il momento delle decisioni irrevocabili, cosa ha scelto di fare Futuro e Libertà? Votare la fiducia a Monti, appoggiare Monti, appiattirsi su Monti, allearsi con Monti. Il Bocconiano, nel caso qualcuno non l’avesse ancora capito, è il Cagoia della nostra generazione, l’equivalente del Giolitti prono alla Società della Nazioni wilsoniana ai tempi del D’Annunzio fiumano.

E’ difficile conciliare il “gesto distruttore dei libertari” cantato dal primo Manifesto del Futurismo con il loden montiano, ed è impossibile conciliare la polemica contro l’usura bancaria di Pound con gli ambienti finanziari che hanno cresciuto, lanciato e sostenuto l’ex premier tecnico. Le contraddizioni si pagano, i nodi vengono al pettine. E dunque non c’è da stupirsi che Fini non abbia raccolto adesioni dal mondo della cultura di destra e dai giovani non omologati al pensiero unico tecnocratico.

Altra parola d’ordine finiana alla fondazione del partito era “legalità”, lotta alla corruzione. Anche in questo caso, gli elettori non ci sono cascati, non hanno dimenticato il sostegno quasi ventennale di Fini a Berlusconi. Se lo stesso Ingroia non è riuscito ad affermarsi significa che il giustizialismo e l’antiberlusconismo per via giudiziaria non paga. A meno che non sia accompagnato da proposte più serie ed allettanti su altri temi, come insegna il successo di Grillo.

In sintesi, Fini ha sbagliato tutto. Dopo aver sotterrato il Movimento Sociale, sciolto Alleanza Nazionale per pura convenienza, deve prendere atto che la sua ultima creatura, Futuro e Libertà non ha alcun futuro nella politica italiana. A questo punto, il consiglio di un pensionamento, di un ritiro dignitoso, ci pare tutt’altro che offensivo.

*l’autore di questo articolo ha scritto il saggio “Doppifini. L’uomo che ha detto tutto e il contrario di tutto” per Vallecchi

Luca Negri

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