L’intervista. Andrea Tornielli: “Paolo VI triste? Fu un grande Papa riformatore”

«Paolo VI fu una grande Papa riformatore. Non so dire se sia stato il più grande del ‘900. Vaste riforme ne ha fatte anche Pio X, ristrutturando tutta la Curia romana. Lui è però colui che ha modificato il volto della Chiesa nell’immediato post-Concilio». Il giudizio è di quelli che pesano dentro il circuito mediatico. Parla Andrea Tornielli, giornalista e coordinatore di VaticanInsider, il progetto web nato nella scuderia de La Stampa e interamente dedicato alle cose di Chiesa. Insomma, un intellettuale che la figura di Giovanni Battista Montini l’ha esplorata sin nel dettaglio. In concomitanza con la beatificazione del Papa nato in Val Trompia, ha infatti pubblicato la biografia scritta a quattro mani con Domenico Agasso Jr Paolo VI. Il santo della modernità (San Paolo, 2014). Titolo che a suo modo guarda già al futuro. O forse, in profondità. Si tratta di un saggio che fa una approfondita ricognizione non solo su di un pontificato cruciale del secolo scorso, ma anche sul profilo umano di una personalità che in troppi faticano ancora a decifrare. Una figura certamente complessa, dal volto trasfigurato. “Il Papa triste”, per la vulgata. Valutazione che però non contagia affatto Tornielli.

Quindi, chi era Montini?

Non è stato sicuramente così mesto come dicono. Anzi, è stato l’unico Papa di sempre a dedicare un’enciclica alla gioia cristiana. Certo, l’atteggiamento che compariva all’esterno era connesso al suo carattere riservato. C’è poi che ha governato in tempi molto difficili, in cui si rischiava addirittura lo scisma. Tuttavia, era un uomo di Chiesa che sentiva tantissimo l’esigenza di stringere rapporti con il mondo dell’informazione e l’opinione pubblica .

Atteggiamento che ebbe anche da arcivescovo a Milano. A proposito, lei che è autore di uno studio pure su Pio XII, come valuta la nomina di Montini alla guida della cattedra di sant’Ambrogio?

Dipende da come la si vede. Il futuro Paolo VI l’ha vissuta, nell’immediato, come un esilio. «Mi hanno tolto la firma», riferì ad un amico. Come dire “non sono più nessuno”. Per capirci, Montini in quegli anni era una figura importantissima dentro la Curia romana, aveva raggiunto un potere grandissimo. A causa di ciò, però, il cosiddetto partito romano dei cardinali riuscì a convincere Papa Pacelli a trasferirlo fuori.

Si piegò dunque ai curiali?

Guardi, credo che Pio XII sapesse perfettamente che non si punisce qualcuno mandandolo a Milano a fare l’arcivescovo. Perché, anche se non gli dai il cardinalato – non fosse altro che di Concistori non ne furono più convocati – lo metti comunque in mostra. In tutti i sensi. Di mio, sono convinto che senza il passaggio ambrosiano, Montini non sarebbe arrivato al pontificato. Si tratta quindi di uno snodo fondamentale della sua vicenda. Quella decisione lo preparò di fatto a un ritorno a Roma.

La riforma del messale non piacque a destra, neanche a sinistra, e forse neanche allo stesso Paolo VI che l’ha firmata. Qual è l’eredità della sua promulgazione?

Fu sicuramente un punto caratterizzante del suo pontificato. È quello il momento che fa conoscere a tutti i fedeli i risultati del Concilio. Certo, nella sua applicazioni ci sono stati eccessi e non tutto è avvenuto in maniera impeccabile. Credo pure che di alcune cose Montini abbia sofferto, ma è fuori di dubbio che andasse fatta una riforma. I fattori positivi sono stati superiori alle sbavature, questo è sicuro.

Quanto c’è di analogo tra l’attuale stagione sinodale e il dibattito, mediatico e non, che portò all’Humanae Vitae?

Ci sono delle analogie, sì, ma quella di oggi è una fase diversa. Allora ci furono grandi discussioni all’interno della Chiesa. Si arrivò a contestazioni aperte. Con la pubblicazione della Humanae vitae, Paolo VI fu attaccato addirittura dai suoi stessi amici. Questo è un dato che colpisce in maniera particolare. Il clima era assai teso. Al momento, però, non siamo in quella medesima situazione.

Quindi lei smentisce la lettura di chi vede un Vaticano III in corso?

Non lo siamo affatto. Che ci sia stato un clima un po’ conciliare all’ultimo sinodo è fuori di dubbio. Ma per esserci un Vaticano III è necessario che ci sia appunto un Concilio. Non si scherza su queste cose. Il sinodo non ha alcun potere decisionale, semmai consultivo. Il Vaticano III viene oggi evocato come spauracchio da parte di chi crede che qualsiasi discussione sia un attentato alla verità della fede.

Cosa intende?

Parla di Vaticano III chi non ha accettato ancora il Vaticano II. Certuni dovrebbero uscire meglio allo scoperto. Quello è il ventunesimo concilio della storia della Chiesa, con documenti votati, ed è questo il miracolo di Paolo VI, alla quasi unanimità dei padri. Se si ha fede, questo non può essere un fatto indifferente.

Cosa rende, allora, il dibattito attuale così polarizzato?

Purtroppo si è arrivati negli ultimi decenni alla perdita di contatto con quella che è la tradizione della Chiesa. I vescovi hanno sempre discusso tantissimo, dentro e fuori i concili. Le dispute teologiche ci sono sempre state. È una caricatura, e una balla sonora, descrivere come se fosse in atto uno scontro tra chi vuole difendere la vera dottrina cattolica contro chi la vuole svendere a tutti i costi al mondo. Ecco, c’è gente interessata soltanto a confezionare caricature e non a conoscere la verità.

Si riferisce al punto sui divorziati-risposati?

Anche coloro che sono disposti ad approfondire il tema sul possibile accesso ai sacramenti, in certi casi e a certe condizioni, lo sottolineo tre volte, per quei i divorziati-risposati che fanno un’esperienza di fede autentica, e che lo chiedono esplicitamente, non hanno alcuna intenzione di modificare la dottrina dell’indissolubilità matrimoniale. Che cosa poi interessi al mondo che le coppie di divorziati-risposati possano prendere la comunione, io non l’ho mai capito. Cosa gliene frega al mondo…

Quindi?

Il criterio che hanno queste persone che discutono, voglio credere, è la suprema lex della salus animarum. Salvare quindi quante più anime possibili.

Tornando a Paolo VI. Quanto c’è di Montini in Francesco?

Credo che ci sia molto di lui, soprattutto nei contenuti. Nell’esortazione Evangelii gaudium, ad esempio, l’Evengalii nuntiandi di Montini è il testo più citato. Entrambi, poi, avvertono assieme l’esigenza che la Chiesa sia quanto più missionaria possibile. A questo si aggiunge l’impegno di tutti e due i papi di puntare tantissimo al dialogo con il mondo e di condividerne le sofferenze. C’è poi il recupero da parte di Bergoglio di certi aspetti della dottrina sociale in sintonia con la stagione montiniana.

Esteriormente, però, sono distanti, non trova?

Papa Francesco, pur essendo di origini piemontesi, quindi riservato, ha un approccio con la gente che ricorda più un mix tra Luciani e Roncalli. I suoi gesti ricordano tanto anche Giovanni Paolo II. Mettiamola così, dal punto di vista esteriore assomiglia più a loro, nei contenuti più a Montini.

Sono tanti i Papi del ‘900 saliti sugli altari. Per qualcuno troppi. E per lei?

Riflettendo, ho qualche dubbio sull’eccesso di beatificazioni e canonizzazioni papali. Non nel senso che credo che i papi del ventesimo secolo non siano stati dei santi. Anzi, ne abbiamo avuti uno più grande dell’altro. C’è che quando si canonizza una personalità la si mette su di un piedistallo, come fosse un esempio. I papi, che sono infatti chiamati santità, sono già di per sé un esempio di virtù. Ci vorrebbe dunque della cautela su tali scelte. Ma non ho dubbi sulla loro santità.

Questo processo è segno, allora, di una ritrovata centralità di Roma, nonostante le tante spinte collegiali ?

Quando Giovanni Paolo II beatificò Pio IX e Giovanni XXIII, e Benedetto XVI beatificò lo stesso Wojtyla, per vederlo poi canonizzato da Francesco, assieme a Roncalli, non c’era nelle loro intenzioni di esaltare il pontificato romano. Sicuramente però questa interpretazione può valere come conseguenza di ciò. Bisogna dunque riflettere. Non aggiungo nulla di più.

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Fernando Massimo Adonia

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