Esclusiva/Libri. “I fumetti che hanno fatto l’Italia” di Alfatti Appetiti: l’introduzione

ifumettichehannofattolitaliaDiciamolo ad alta voce: i fumetti hanno condizionato il costume e a volte persino annunciato le rivoluzioni sociali. Nel secolo breve, hanno incendiato le anime più di quanto siano riusciti a fare paludati maître à penser. Altro che armi di distrazione di massa, le immagini hanno una potenza di fuoco ben più capillare di migliaia di parole ben infiocchettate ma dall’insipido retrogusto pedagogico. Quelli che una volta erano i famigerati giornaletti, poi, hanno appreso e fatta propria la dura legge del mercato e si fanno chiamare graphic novel, letteratura disegnata: una forma espressiva in grado di rappresentare con disinvoltura le più rilevanti questioni sociali e politiche dei nostri tempi. Si tengono alla larga dalle edicole e quando si presentano in libreria lo fanno sfoggiando copertine rigide più eleganti di quelle dei classici, mortificati nell’edizione economica. Una domanda, però, vogliamo porcela. A quale pubblico si rivolgono? Quello adulto, per lo più. Ai nostalgici dei giornalini che, divenuti benestanti signori di mezza età, possono investire nei ricordi e ricomporre indimenticate collezioni. Ai lettori occasionali che, di converso, non hanno mai letto fumetti né, probabilmente, lo faranno in futuro.

I fumetti sono stati sdoganati, verrebbe da dire, ma valeva la pena rinunciare al gusto della provocazione, che tanto dispiacere procurava ai conservatorismi democristiani e comunisti, per entrare nel salotto buono della cultura? Mal tollerati, in ogni caso. Facciamocene una ragione: per i sacerdoti della cultura ufficiale resteranno macchie d’inchiostro destinate a fermarsi nella trafficata anticamera della narrativa. Fumetti, per l’appunto. A volte blanditi e più spesso ridimensionati. Rimessi al loro posto. Perché se è vero che i romanzi visivi commercialmente funzionano, elemento non trascurabile, e possono raggiungere un pubblico potenzialmente più ampio di quello dei romanzi tradizionali, tutto quanto è pop viene da sempre trattato con sufficienza. Difficile far comprendere che la cultura popolare è l’epica della modernità e che, proprio come gli eroi di Omero, gli eroi dei fumetti, con tutto il loro bagaglio di coraggio e paure, generosità e miserie, nobiltà e meschinità, di buoni e cattivi sentimenti, altro non rappresentano che lo specchio degli umani. Eppure la nona arte rimane quella più avversata di tutte, bersaglio di  una crociata che ricalca una delle più antiche lotte culturali per l’affermazione del ruolo di formazione dell’immaginario individuale e dei valori personali e sociali: quando un nuovo fenomeno entra in scena e turba quelli che vengono identificati come principi tradizionali e perciò affidabili, le correnti di pensiero egemoni si affannano per un inquadramento e conseguente neutralizzazione dell’ultimo arrivato.

Contro questo medium si sono schierati plotoni di educatori, figure istituzionali e religiose, associazioni di genitori e guardiani delle ideologie camuffati da critici. Per quanto la maggior parte dei supereroi possa essersi distinta nel combattere la Germania nazista ancor prima che si muovesse l’esercito americano, l’accusa principale che veniva rivolta loro era di essere falsi déi di carta, pagani e, in quanto superuomini, in odor di fascismo. Una campagna denigratoria degna di miglior causa. L’Italia non fece eccezione. Palmiro Togliatti costrinse Elio Vittorini a chiudere il Politecnico perché divulgava fumetti, mentre Nilde Iotti, su Rinascita, già nel 1951, segnalava la pericolosità sociale dei fumetti, la cui lettura rappresentava per l’esponente comunista «una delle cause di irrequietezza, scarsa riflessività, deficiente contatto col mondo circostante e quindi tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori dalla legge».

I comunisti non mangiavano i bambini ma non avevano piacere che i loro pargoli potessero leggere fumetti. Paradossale che da quello che fino a quel momento era stato tollerato come un innocuo passatempo per l’infanzia, si dovessero tenere lontani proprio i fruitori per antonomasia. Quel che si chiedeva ai giornaletti, in definitiva, era di essere conformi rispetto a un insieme di consolidati valori del mondo adulto. Non c’era solo il timore per quello che i giovani lettori di fumetti potessero diventare in futuro ma anche per quello che erano già: personcine che stavano sviluppando propri gusti e interessi, e che, soprattutto, erano determinate a goderseli.

La parola “avventura” venne messa al bando: per lo scompiglio che portava con sé, rappresentava un elemento perturbatore della famiglia e, più in generale, del vivere sociale. L’anatema che si abbatté sui comics rappresentò il primo eclatante fenomeno di criminalizzazione di una forma di intrattenimento di massa rivolto principalmente ai giovani, prima dell’analogo fenomeno censorio che si scatenò sul rock’n’roll. Una presunzione di colpevolezza – ma quale colpa? – fece sì che gli eroi d’inchiostro venissero tutti iscritti d’ufficio nel registro dei cattivi maestri, non solo metaforicamente.

Noi vi dimostreremo, invece, quanto i fumetti italiani e quelli d’importazione abbiano arricchito l’immaginario di preziose suggestioni e contribuito al miglioramento della società italiana. Lo faremo inquadrando, nell’ambito dei cambiamenti culturali che hanno attraversato il nostro paese, le pubblicazioni che si sono susseguite dal 27 dicembre 1908 – data che ha un suo perché – ai giorni d’oggi, mostrandovi come tra accelerazioni, spinte e frenate, abbiano camminato insieme.

In tutta franchezza, cari lettori, quella che vi apprestate a leggere non ha l’ambizione di essere una esaustiva storia del fumetto, per quella ci permettiamo di suggerirvi altri più autorevoli approfondimenti nella “bibliografia essenziale” in coda al volume. Non siete di fronte alla ricerca di uno studioso con pretese di obiettività, ma all’educazione sentimentale di un appassionato di fumetti che si è a lungo occupato di questa materia incandescente per quotidiani e riviste. Alcuni autori fondamentali sono indubbiamente trascurati e altri, probabilmente minori, dettagliatamente trattati. Un occhio vigile, ne siamo certi, potrà dilettarsi a scovare inesattezze e parzialità. Ai lettori meno esigenti e più tolleranti, i nostri preferiti, chiediamo di condividere un viaggio di ritorno che ci possa riconciliare con gli adolescenti che eravamo e che, in fin dei conti (e dei giochi, purtroppo), siamo rimasti. Romain Gary, letterato dall’esistenza avventurosa come e più di un fumetto, se l’era posto come orizzonte di vita e imperativo morale: «bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità». La voglia di stupirsi potrebbe ancora vincere sul disincanto, se solo riuscissimo a tirarci fuori dalle sabbie mobili della quotidianità per rivendicare con un barbarico yawp l’inalienabile diritto all’evasione.

Da “I fumetti che hanno fatto l’Italia” (Giubilei Regnani  ©, 2014), in tutte le librerie italiane!

Roberto Alfatti Appetiti è nato a Roma nel 1967. Giornalista e saggista, ha ideato e curato apprezzate rubriche culturali per quotidiani e periodici e pubblicato centinaia di articoli su narrativa e immaginario popolare. Nel 2011 ha pubblicato All’armi siam fumetti. Gli ultimi eroi d’inchiostro (Il Fondo) e nel marzo del 2014 Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti).

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