Cinedocumentari. Se Tomas Milian ritorna a Cuba (con Giuseppe Sansonna)

Milian (1)Non sappiamo a quanti cultori di questo attore sia sfuggita la trasmissione: è andato in onda martedì 16 dicembre alle 23,20, in esclusiva su Rai Movie, The Cuban Hamlet – Storia di Tomas Milian, il documentario di Giuseppe Sansonna che racconta il ritorno di Tomas Milian nella sua Havana, lasciata nel 1956.

Bellissimo, ricco e spregiudicato, rinunciò a un’agiata esistenza alto borghese per arrivare a New York, sulle orme del suo mito James Dean. Mentre otteneva un insperato ingresso all’Actors studio, a Cuba esplodeva la Revolución castrista.

Tomas decise allora di intraprendere la sua rivoluzione personale, vissuta sullo schermo. Diventò italiano d’adozione, oscillando tra Visconti e Bombolo, tra Antonioni e lo spaghetti western.

Oggi, dopo quasi sessant’anni dalla sua partenza, rivede Cuba per la prima volta. Vagando per l’Havana “alla ricerca dei passi perduti” si abbandona a un lungo, ipnotico racconto nel suo dolce tono ispanico, puntellato di gergalità americane e scivolamenti romaneschi. Confessandosi a uno sguardo amico, traccia bilanci, rimugina ricordi, tragedie fondative e amori perduti. E, infine, sembra svelare l’ultima maschera, quella più intima.

“Er Monnezza” oggi ha ben 81 anni.Ce lo ricordiamo con quei modi inurbani ma efficaci, che in divisa d’ordinanza cinematografica – tuta blu da meccanico e pettinatura rasta – ora in prestito al Monnezza, ora all’ispettore Nico Giraldi, è entrato nel cuore degli italiani dispensando schiaffoni e risate, per molti anni applauditi solo dal pubblico in sala e dalla lungimirante e anti-snob critica di destra.

“Per interi decenni, quelle commedie sboccacciate e quei poliziotteschi caciaroni, che hanno dominato i cartelloni distributivi e le classifiche del box office a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, sono stati guardati con sdegno accademico e distacco critico da quell’intellighenzia di sinistra ancora immune dal virus dell’appropriazione culturale che l’avrebbe colpita sulla fine dei Novanta, portandola a sdoganare, dalla Fenech a Franco e Ciccio, passando per i Cugini di campagna, finanche Tomas Milian”, aveva scritto almeno tre anni fa Priscilla Del Ninno sul Secolo d’Italia. E il giudizio è ovviamente sempre attuale.

Riposizionando, sullo scacchiere della rilettura revisionista, tutte le pedine e gli alfieri di quella cultura popolare considerata fino all’istante prima scollacciata, spudorata, volgarmente populista e appannaggio solo di un certo pubblico dal palato facile, e di una certa critica poco incline ad arricciare il naso. Del resto, era lontano da venire il successo pulp di Tarantino, pronto a nobilitare protagonisti e sapienza artigianale di quel cinema caratterizzato anche dai Monnezza e dai Giraldi a cui, pochi sanno, ha prestato volto e credibilità istrionica un attore come Tomas Milian, dall’insospettabile blasone professionale.

Il documentario di Sansonna ci ha presentato un un curriculum ancora poco noto, quello di Milian, e agli occhi di quella critica progressista miope e bacchettona, oscurato dalla promozione popolare e dagli incassi al botteghino, “disvalori” che mal si accompagnano nel giudizio critico all’idea di spessore culturale. Un curriculum, quello di Milian, inaugurato sulla ribalta di Broadway, e arricchito poi sui set di Lattuada, Zurlini, Bolognini, Visconti e Pasolini. Un talento, quello dell’attore cubano ritornato nella sua Havana, declinato anche agli spaghetti western diretti da Sergio Sollima e Lucio Fulci, altro filone, come è noto, a lungo considerato di serie B.

“Una serie B finalmente promossa al girone principale per cui, in un ribaltamento di prospettive e giudizi di valore, da ‘qualunquisti e fascistoidi’ i film di Tomas Milian, amati a lungo solo a destra, godono oggi di nuova credibilità spettacolare”. Parole sacrosante quelle della Del Ninno.

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