Il commento. Il riso amaro di Charlie tra disperazione e pathos mediatico

giullareI semi della storia generano mostri: disperazione reale ed emotività mediatica

I recenti fatti di Parigi ci spingono a riflettere e a prendere posizione su episodi della nostra vita europea che suscitano violente ondate di emozione. E l’emozione non è buona consigliera. Bisognerebbe lasciare al tempo il compito di chiarire il perché di questi frammenti di storia contemporanea. Ecco, semplicemente “capire”, come Tiziano Terzani esortava, inascoltato, Oriana Fallaci all’indomani dell’11 settembre.

Ma la società massmediatica ci spinge a reazioni immediate. Abbiamo visto alla televisione il fiume di parigini, con alla testa 50 capi di stato, che testimoniavano la loro solidarietà con le vittime dei due attentati. Per il TG finlandese erano un milione, per il TG1 italiano due milioni. Già nel balletto delle cifre si nota la necessità impellente di trasformare questo tragica giornata parigina in un messaggio chiaro e deciso. “Libertà d’opinione e di espressione”, è il tema ricorrente, sintetizzato nello slogan “Je suis Charlie”.

Quello di identificarsi con le vittime di un sopruso è un vecchio modo di esternare la propria solidarietà, iniziato nel 1958 con il “jai vous ai compris” rivolto ai pieds-noirs da Charles de Gaulle (che tre anni dopo li cacciò dalla loro Algeria), continuato nel 1963 con il celebre “Ich bin ein Berliner” di Joseph Kennedy e da George W. Bush con il suo “chi non è con noi è contro di noi” dell’indomani dell’11 settembre, per arrivare al “siamo tutti francesi” pronunciato appunto l’altro giorno dal nostro primo ministro Matteo Renzi.

L’emotività spinge alla irrazionalità, questo è ben noto. Ma questa trasmissione di sentimenti viene accentuata dai massmedia. Intendiamoci, esistono due tipi di medium: uno è quello tradizionale (la stampa quotidiana, la televisione di stato e quella privata, molto spesso embedded), l’altro è quello della Rete. L’informazione della Rete può essere di tutti i tipi, differenziandosi su una scala veramente amplissima di tipologie informative, molte delle quali per fortuna alternative rispetto al medium “ufficiale”.

Forse mai come oggi possiamo notare il divario tra i due tipi di informazione. Il milione di parigini (o quanti furono) è stato mosso dalle immediate notizie dei quotidiani e dei notiziari televisivi, mentre i milioni di europei che erano per necessità geografica a casa propria hanno nei giorni seguenti avuto accesso ai siti che sono ora inondati di commenti, dibattiti, insulti, e soprattutto vignette.

Ecco il punto: le famose vignette di Charlie Hebdo. Normalmente comparivano in alcune decine di migliaia di copie, acquistate da un pubblico di un certo tipo (non voglio attribuire etichette). Charlie nel prossimo numero sarà edito in un milione di copie. Sì, un milione di copie, che promettono di spargere in ogni angolo della Francia (alcuni, come la Santanchè, hanno proposto una diffusione europea della rivista) le nuove vignette su Maometto e i musulmani.

Agli inizi, quando giunse la notizia delle due stragi, a parte appunto qualche decina di migliaia di residenti in Francia, nessuno conosceva quei disegni. A “Porta a porta”, uno dei più indecenti palcoscenici del conformismo italiano, quelle vignette, quelle veramente significative, non sono state mostrate, ma tutti i partecipanti condividevano nel condannare la mostruosità dell’attentato alla libertà di penna.

Ma poi quelle vignette hanno cominciato a circolare. E molti, vedendole (e qui non possiamo che ringraziare la solerzia della Rete) hanno cominciato ad avere dei dubbi. Sono veramente frutto di una gustosa satira, o non sono invece pure e semplici offese al buon gusto e alla sensibilità soprattutto di islamici e cristiani? Sono convinto che quelle più eloquenti, sia nell’immagine che nell’enunciato, i giornali non le abbiamo ripubblicate o le TV mostrate. Offenderebbero la sensibilità di milioni di persone.

Già, esiste un limite all’offesa? Quando la satira diventa dissacrazione? e quando la dissacrazione diventa offesa? e quando l’offesa diventa crimine? In Finlandia, Paese di cultura libertaria nordica, il codice penale contempla ancora il reato di “Jumalan pilkka”, blasfemia, e leggi simili esistono in altre legislazioni europee, compresa quella italiana. Certo, oggigiorno si tende a non applicare queste leggi, ma ci sono.

Quando lo Stato ha il diritto, anzi il dovere di porre dei limiti alla libertà personale? Quando questa offende la libertà collettiva. Ho libertà di ascoltare musica a pieno volume, ma non a un’ora tale o in modo tale da disturbare il mio vicino. E, il mio vicino, tornando al nostro argomento, può essere musulmano o cristiano.

Noi cristiani abbiamo un alto livello di tolleranza, oramai. Possiamo mettere sulla croce Fantozzi o un maiale, al posto del Cristo, e al massimo scuotiamo la testa per la mancanza di buon gusto. Non ci armiamo di kalashnikov. Ma ogni cultura, comprese quelle culture “altre” di cui tanto si parla per imporne il rispetto (a cominciare dall’intelligentsia francese) ha posto dei limiti alla sua tolleranza nei confronti dell’uso che altri fanno delle proprie immagini e dei propri testi. Il trattare senza il dovuto rispetto un volume contenente il testo del Corano ha suscitato nei prigionieri di Guantanamo (ah, questa America così profondamente libertaria!) violente proteste da parte dei musulmani. Noi cristiani avremmo lasciato fare se si fosse trattato della Bibbia.

Ecco dunque che il problema della difesa della libertà coincide con quello di “quale libertà”? La società francese è regolata da leggi uscite dall’Ottantanove. Sono diventate un esempio per le altre culture e società dell’Occidente, che poi ha cercato, e cerca, di esportarle anche là dove esistono ben altre tradizioni e altre radici.

E qui inizia il lungo, tragico percorso che ci conduce all’ufficio di redazione di una Rivista. L’Occidente, si dice in un recente libro di Stark, ha avuto il primato della civiltà; lo ha ereditato dalla Grecia e da Roma. E quindi, continuano i sostenitori della supremazia occidentale, abbiamo il diritto, anzi il dovere, di portare questa meravigliosa civiltà in altri Paesi e continenti. Peccato che in quei Paesi e continenti esista già una civiltà addirittura pari se non superiore alla nostra.

In tempi più recenti, l’Occidente ha continuato la sua opera civilizzatrice esportando milioni di schiavi nelle piantagioni del Nuovo Mondo e colonizzando tutto quanto era a portata di mano, compresi i Paesi di fede islamica. Il cristianesimo seguiva l’esortazione di Paolo, ma il missionario era accompagnato dal soldato e dal mercante. Pessimi compagni di strada.

Alcune culture, seppur nobili e ricche di valori e spiritualità, sono state assorbite con facilità in quanto o costituzionalmente deboli, quelle africane, o perché religiosamente remissive, quelle di fede buddhista. Certo, rivolte improvvise, stragi di occidentali, avvenivano ricorrentemente, da Khartoum a Pechino, ma erano esplosioni di una disperazione che non incideva sulla storia della lunga durata.

Ma l’incontro con l’Islam è stato più complesso, più drammatico. Dobbiamo innanzitutto ricordare che l’Islam deriva dal nostro ceppo abramitico, quindi la sua alterità è relativa, come relativa è quella ebraica, il terzo figlio di Abramo. L’Islam non ha alcun complesso di inferiorità nei confronti del mondo cristiano (confesso che mi è difficile continuare a usare il termine “Occidente”, che non esiste se non da pochi decenni, ma non vorrei andare troppo lontano dal tema che ci interessa). Si impone ad esso tra la seconda metà del VII secolo e l’XI e costruisce una civiltà pari, se non superiore alla nostra.

Non è vero che il “clash of civilization” sia nato con le Crociate, che sono soltanto l’aspetto militare di una questione coeva molto più articolata, che vide nascere il dialogo nella “casa della Tregua”, come gli Arabi chiamavano quella fascia, geografica e culturale, dove cristianità e Islam si incontravano. Sarebbe ovvio e banale citare San Francesco e Federico II di Svevia e i loro viaggi in Terrasanta, o i saggi arabi e turchi che risiedevano nelle nostre corti medievali e rinascimentali.

E’ nell’Ottocento che le cose cambiano. L’Europa da un verso, e più tardi gli Stati Uniti dall’altro, passano da una colonizzazione mercantile a quella territoriale. In conseguenza della quale si attua l’incontro tra dominatori (noi) e dominati (loro). E i dominati non sono “selvaggi” (ammesso che siano mai esistiti nel vasto mondo) ma gli eredi di una grande civiltà e di una grande spiritualità (quanta ignoranza sul Corano! quanti di noi l’hanno veramente letto?)

Ecco le radici lontane. La Francia sottomette il Maghreb. L’Italia la Libia senussita, l’Inghilterra le regioni arabiche, l’Olanda il sud-est asiatico islamico. Comincia a svilupparsi nella nostra cultura quel malcelato senso di superiorità, che si radica come conseguenza naturale del rapporto tra padrone e servo, anche se il servo, come succede ad esempio in India, può essere più civilizzato del padrone. Un senso di superiorità che non è solo di costumi, ma anche di razza. Il mito del “bianco” si forma come conseguenza del nostro incontro con gli “altri”, cui attribuiamo, per distinguerli, anzi, per distinguerci, differenti colori, i negri, i gialli, i pellerossa. E il razzismo codificato, quello ideologico, sarà bene ricordarlo, non nasce in Germania, ma in Francia e in Inghilterra.

Invertiamo ora le parti. Se El Tarik fosse riuscito, oltre che a sbarcare in terra di Spagna, a continuare la sua corsa fino agli estremi confini d’Europa e se l’Europa fosse rimasta sotto l’influenza musulmana, sebbene ancora cristiana, saremmo ora noi a dover seguire le loro leggi, a uniformarci alla loro sensibilità e le nostre donne porterebbero il velo, che logicamente sentirebbero come una violazione della propria femminilità.

Noi abbiamo fatto esattamente questo a loro. Certo, i grattacieli di Dubai, i fiumi di dollari incanalati verso i produttori di petrolio, internet, la coca cola sono elementi ben accetti nel mondo che ci sta accanto. Ma qual è, nel profondo, e quanta è la ferita che abbiamo inferto loro?

La ferita un triste giorno comincia a sanguinare. E’ come se avessimo raggiunto il limite biologico della resistenza. L’Islam, in un empito di orgoglio, cerca di prendere le distanze dall’occidentalizzazione. Non lo fanno i governi, troppo impegnati a gestire pozzi di petrolio o sottili diatribe politiche tra conservatori e baathisti (ma in realtà tra sciiti e sunniti) ma sono i loro popoli, o quelle frange dei popoli che reagiscono alla nostra invasione accendendo per salvare la propria identità la fiamma dell’orgoglio dell’appartenenza all’Islam. Un orgoglio che resta l’unica consolazione per gli abitanti delle banlieu e per i Gastarbeiter, esuli, in una patria d’altri.

Ma questo non sarebbe bastato. L’Europa, al seguito, come timido cagnolino, del padrone statunitense, contribuisce all’attacco che l’America dei due Bush conduce contro l’Islam, sia per motivi geopolitici (la sicurezza di Israele) sia economici (il controllo delle fonti energetiche).

Certo, bisogna portare la libertà e la democrazia in alcuni Paesi, oppure difenderli da un qualcosa che però, guarda caso, è il risultato della stessa introduzione di quella liberazione e di quella democrazia. E ciò provoca il deflagrare di una guerra che, per essere combattuta, non può che ricorrere al terrorismo, perché quella di oggi è una guerra asimmetrica e non è combattuta ad armi pari.

E il terrorismo comporta vittime innocenti, vittime non differenti da quelle provocate dai droni e dagli F 14. Certo, i morti sono morti, e vanno compianti, anche se la retorica dei discorsi commemorativi può provocare in noi un senso di fastidio. E io capisco bene quelle mogli e quei figli dei morti di Parigi, non fosse altro perché nell’estate di due anni fa mia nipote rimase orrendamente ferita in un attentato dei talibani di Kabul, morendo poi nel letto di un ospedale militare tedesco.

E così la Francia, torniamo a lei e tralasciamo, per pietà politica, l’Italia, si accoda con entusiasmo, anzi spintonando per passare in prima fila, alle guerre contro Saddam Hussein, Assad, Gheddafi, i talebani afghani, con alcune digressioni nella “propria” Africa nera. Dimentica la politica di de Gaulle e di Chirac (che non aveva voluto partecipare alla prima guerra del Golfo) e si lancia con entusiasmo nei conflitti voluti dagli Stati Uniti. E lancia, con eguale entusiasmo, tonnellate di bombe che, ahimè, non vanno a cadere solo sulle istallazioni militari.

L’immagine, l’imago in senso mediatico, domina la cultura di massa. La Tv e poi i socialmedia, ripropongono cose orribili, come le lapidazioni di donne condannate dalla Sharia o gli sgozzamenti di innocenti ostaggi (ma sono antiche tradizioni comuni anche a noi, basta rileggere i Vangeli, a parte la nota “prima pietra”, il passo di Luca, 19). Ma nell’imaginifico si creano delle differenze, delle discrepanze. Le immagini che riprendono il mitragliamento di bambini palestinesi su una spiaggia, o quelle della chirurgica precisione del drone che colpisce una scuola pakistana, o del carro armato che a Gaza abbatte un edificio con dentro i suoi abitanti, sono immagini asettiche, quasi da video-giochi.

Immagini distanti. L’orrore (ricordate “the horror, the horror” di Kurz in “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad?) si diffonde e ci impregna le coscienze se riguarda qualcuno di noi, uno che abita in quella bella città sulla Senna dove anche i nostri intellettuali se ne vanno in piacevole vacanza. L’orrore, in altre parti del mondo una semplice notizia di agenzia, diventa tale se dilaga a Parigi, in quell’isolato di Vincennes non lontano da dove siamo andati a mangiare quel giorno in quel simpatico bistrot. Quanti di noi, invece di sentirsi, chessò, tripolini o waiziriani si presentano vanitosamente come “parigini” e quindi si sentono in dovere di partecipare al rito del compianto?

Già, la morte di Parigi riguarda uno di noi. Nello stesso giorno in cui muoiono i parigini, vengono uccise, in altre parti del mondo, diecine di africani e di arabi, forse centinaia. Una prima notizia del TG finlandese parlava di duemila vittime nigeriane. Ma un morto ammazzato africano o di Baghdad o del Waziristan non conta quanto uno di Parigi o di New York. Il morto del mondo civile è molto più morto, ha ferite più orrende, più sangue da spargere del povero morto coperto di stracci della campagna nigeriana o del suk irakeno.

Marciamo per loro? Piangiamo per loro? No, cambiamo canale o passiamo alla pagina dello sport. Ma, diavolo, dobbiamo comunque difendere la libertà di espressione, sia essa quella che sia!

E allora quel povero guitto che è il comico Dieudonné M’bala M’bala osa dire che sì, lui è Charlie, ma è anche quel tipo lì che ha sparato, e lo dice per farci capire che la tolleranza deve essere uguale per tutti, anche per lui che critica e satireggia Israele e ama la Palestina libera.

E l’implacabile Marianna, messosi il berretto frigio in capo, con severo cipiglio lo denuncia. Come denuncerebbe me, se fossi cittadino francese, anzi, forse anche se non lo sono, se osassi, seppur in quanto storico di professione, mettere in dubbio qualcuno dei dogmi fondanti della Shoah. Oppure se rifacessi i conti e dicessi che gli Armeni ammazzati non erano poi proprio così tanti. Oppure se la mia compagna, convertitasi all’Islam, si mettesse il velo. L’implacabile Marianna stende il dito. Il “j’accuse” è un antica, simpatica maniera francese di mandare la gente in galera.

E la Francia, con le sue manifestazioni, con la costruzione che nessuno potrà scuotere della denuncia dell’attacco alla liberté getterà le premesse per alzare il muro che la deve separare dall’Islam. Hollande farà vincere Il Front National (che però, ma guarda che libertari! Charlie voleva far sciogliere consegnando una petizione con settantamila firme alla procura) e prima di consegnare le chiavi dell’Eliseo alla simpatica Marine, potrà finalmente fare la guerra in Siria come avrebbe voluto fare fin dall’inizio, e la farà grazie al milione di Charlie. E il mostro che Francia, Inghilterra, Stati Uniti e NATO hanno fatto uscire dalla bottiglia, si rinvigorirà, attirerà tutta la limatura della disperazione, dell’odio e della vocazione al martirio della gioventù musulmana.

Chi ha visto la propria casa distrutta dai bulldozer israeliani, chi ha perso i figli o la moglie, o il fratello nei bombardamenti degli aerei dei difensori della libertà come guarda a questo nostro Occidente? I figli e i nipoti di quei 250.000 harkis, gli algerini che avevano collaborato con la Francia, cui de Gaulle negò il permesso di salvarsi emigrando in Francia, mettendo in campo di concentramento quei pochi che erano riusciti a fuggire, e che furono sterminati dai vincitori loro confratelli, come guardano a questa Francia paladina della difesa della libertà?

I semi che, nel corso di tanti anni, abbiamo gettato nel terreno della nostra storia stanno germogliando. La disperazione è un seme malvagio. E noi lo abbiamo sparso in tutto il mondo.  (La Rondine – 14.1.2015)

*Università di Turku

Luigi G. de Anna*

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