Libri. AcciaioMare e il dio bifronte del Lavoro che affatica e premia la libertà dell’operaio

MelloneACCIAIOMAREpiattoHa i caratteri dell’epica ed una lingua futurista, l’ultimo lavoro di Angelo Mellone. AcciaioMare (Marsilio, pagg. 92, euro 9) fonde, anzi “elettrosalda” empito antico ed industria moderna in un autentico monumento ai caduti dell’Italsider, gli uomini che hanno collaborato a costruire la grandezza della Taranto moderna. Moderna, ma non contemporanea, perché AcciaioMare è anche, parafrasando il sottotitolo, “il canto dell’industria che muore”.

Lo sguardo, sempre in bilico tra passato e presente, oscilla tra sarcasmo ed ironia, procede secondo un ordine più analogico che lineare, divagando tra memorie lontane e considerazioni recenti. L’esito è un canto epico in piena regola, con tanto di epiteti e invocazione alla musa, che in questo caso è Taranto stessa, “signora di questo golfo” e, naturalmente, di eroi. L’Ilva ricorda la fabbrica sfavillante di Metropolis, di Fritz Lang, ma gli operai al suo interno sono soldati, opliti fieri dagli elmetti bianchi, gialli e rossi che sfoderano armi traslucide forgiate con il più nobile dei metalli, l’acciaio. Lo stesso acciaio che “Gustave Eiffel impiegò/ in diecimila tonnellate e trecento metri/ issati per celebrare il genio umano”.

AcciaioMare è un canto d’amore e di denuncia: d’amore per la città che ha dato i natali all’autore, terra di civiltà antiche rinata con l’acciaio del quale, convocando genti “da ogni angolo di sud” avrebbe potuto essere la culla, la capitale e il mito. Nella lettura di Angelo Mellone, l’intera storia di un polo siderurgico, che la cronaca recente ha voluto rubricare tra i casi di ambientalismo mancato, diventa epopea del riscatto che avrebbe potuto far dimenticare secoli di umiliazioni e di appuntamenti mancati con la storia. L’Ilva stessa, di cui il verso sembra tradurre il respiro immenso, è fucina di fatica ed orgoglio, resi assoluti da un grido di bambino cresciuto nel rione delle polveri rosse: “mio padre fa i tubi!”. Quel padre si chiamava Nicola Mellone e il suo nome allunga l’elenco dei caduti con un’unica diagnosi: tumore. Angelo Mellone quei nomi li ha raccolti tutti. Sono i protagonisti di un epos a volte aspro e a volte commosso, sempre straordinariamente intenso, che ripropone il volto di una terra che ha dimenticato sé stessa. Della città che era acciaio e mare non restano che “ruggine e sabbia e acqua mossa”, perché quando “l’industria muore e il Siderurgico smonta la guardia… l’epica e la Storia salpano col cargo che batte/ bandiera straniera”. Ma non c’è spazio, in questa poesia straziata e franta, per il vittimismo. Nemmeno nelle definizioni. Mellone è un aedo moderno nel cui canto i caduti dell’Italsider appaiono non vittime da compatire ma eroi da celebrare. Nel loro pantheon domina una divinità bifronte che affatica e premia. Esige dedizione, sacrificio, fierezza. Si chiama Lavoro.

* AcciaioMare (Marsilio, pag. 92, euro 9)

Silvia Quaranta

Silvia Quaranta su Barbadillo.it

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