Cinema. American Sniper, il tabù della guerra e il finto pacifismo da salotto

american_sniper_stillIl politicamente scorretto raramente ha dimora nei salotti patinati del cinema. E se American Sniper scivola tra gli scantinati delle statuette simboliche, nella polvere degli abiti demodè, troppo poco glamour per aspirare al timbro dei buoni e dei giusti, la forza e la portata sociologica del capolavoro dell’inossidabile Clint Eastwood esce persino rafforzata dalla notte degli Oscar. A dispetto dell’unico (minore) riconoscimento assegnato a una delle pellicole più scomode realizzate negli ultimi anni – miglior sonoro -, il film che fa discutere da settimane l’Occidente acquista, per paradosso, ancora più potenza espressiva. Senza nulla togliere agli altri film premiati, la storia del cecchino dei Navy Seals continua a spiccare per impatto, valore estetico e profondità di temi.

E’ arrivato in volata, American Sniper, alla notte più celebrata dall’ortodossia cinematografica a stelle e strisce. Celebrato dai botteghini e da parte della critica, che pure non ha mancato di interrogarsi su un film che interroga la società occidentale su un nervo scoperto, in tempi in cui i dubbi su un tema come la guerra sono accantonati per moralismo o esaltati per fanatismo. E così ci si è affannati a giustificare, anche in Italia, come il film non sia “per nulla fascista” (excusatio non petita?) ma anzi, un inno contro gli effetti della guerra sulla psiche dei veterani. O, al contrario, in un gioco di specchi simbolo delle contraddizioni dell’epoca, si è tirato fuori l’armamentario stantio dei reazionari di tutti i colori, che mettono a posto rabbia, orgoglio, fede e ragione come un libro della Fallaci sul comodino, ammutolendo i sensi di colpa con un colpo di spugna d’arrogante attualità.

Strano fenomeno, in tempi in cui la guerra bussa alle porte dell’Italia e ci si deve confrontare con crociati dell’Isis che darebbero fuoco al Colosseo e crociati del mucchio di chi urla “Je suis Charlie”, ma solo quando fa comodo. La guerra c’è sempre stata. Anche in Europa, anche nel Mediterraneo, anche dopo il secondo conflitto mondiale. La si può appellare “operazione di pace preventiva”, per anestetizzarne l’impatto e confondere le coscienze. La si può definire “primavera” se gli arabi sono amici che si conta di convertire in soci con cui fare affari migliori in futuro. La si può giustificare come intervento umanitario, tanta è la falsità dei teorici del razzismo antropologico di chi “esporta” (mica impone con la forza…) la democrazia. Ma la sostanza non cambia.

“Troppo controverso” per vincere, American Sniper racconta di un anelito alla lotta, interna prima che esterna, che non può essere accettato da chi ha fatto della guerra un tabù, per girarsi meglio dall’altra parte e far finta di non ricordare che di guerre ne sono state fatte tante, troppe, anche per conto di un’Europa docile come quei chiwawa che spuntano dalle borsette patinate di qualche star di Hollywood. Ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, solo per citarne alcune. Una (finta) pace esportata a colpi di bombe intelligenti e assoluta – come metterla in dubbio? – buonafede. Oggi i nuovi barbari, un po’ più temibili degli hooligans del Feyenoord, bussano alle nostre porte per farci odiare l’Islam e scatenare una reazione che giustifichi la riaffermazione degli stessi principi che contestano. E ai finti pacifisti, detentori del sistema di valori che ha partorito i cosacchi del Califfo pronti ad abbeverarsi alle nostre contraddizioni, non resta che addomesticare Eastwood e far tornare American Sniper nel recinto del politicamente corretto. E poi guardarsi allo specchio, riconoscendo, nell’immagine riflessa, il nemico che hanno contribuito, per ignavia o arroganza, a creare.

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Mario De Fazio

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