Libri. Marino Piazzolla e “Le mie teorie eretiche”: un bohèmien pugliese alla corte di Gide

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Marino Piazzolla riceve il Babbuino d’argento. 22.05.1957

Marino Piazzolla, nasce a San Ferdinando di Puglia il 16 aprile 1910. La sua infanzia viene segnata dalla prematura morte dei genitori e dal trasferimento nel 1931 in Francia. Nel 1938 consegue il diploma di Studi Superiori di Filosofia discutendo una tesi su Le poetiche da Aristotele all’abate Brémond e pubblica in francese le due raccolte di versi Horizons Perdus e Caravanes. Ben presto il grande scrittore André Gide accoglie nella rivista Arts et Idées suoi testi di critica.

Quella di Piazzolla è un’opera che andrebbe riscoperta, quantomeno per riscattare le ingiustizie che il poeta pugliese dovette subire nel corso della sua carriera; ingiustizie che inficiarono fortemente sul successo dei lavori di Piazzolla, che mai riuscirono ad approdare – per ragioni niente affatto legate alla qualità – presso case editrici di rilievo nazionale, sebbene accolte favorevolmente da una lunga schiera di critici su giornali illustri (Secolo d’Italia, Osservatore Romano, Giornale d’Italia).

Soprannominato il “toro funebre”, per la personalità eclettica e sanguigna, la sua figura richiama quella dei bohèmien, visti peraltro i trascorsi parigini accanto ad artisti e letterati del calibro di Gide, Claudel e Apollinaire. Marino Piazzolla è stato un artista a tutto tondo: di lui si ricordano, anzi, si dovrebbero ricordare, gli scritti letterari, di critica e di arte, le opere plastiche, i dipinti, le raccolte liriche e le prose. Fu intellettualmente anarchico e politicamente conservatore, attraversò il Ventennio senza compromissioni né rivolte, si rivelò anticomunista durante il dominio culturale del Partito Comunista; rispetto alla cui politica si mostrava contrario, se non altro per il populismo che, a suo dire, echeggiava dietro le direttive di Togliatti.

Non scese mai a patti con “i poteri forti” della cultura del dopoguerra e degli anni a venire, mostrandosi costantemente critico nei confronti di riconoscimenti, attestazioni e premi letterari; sui quali espresse, peraltro, giudizi forti, considerandoli il frutto marcio di una cultura morente e mettendone in discussione l’imparzialità delle giurie, dietro cui solitamente si celava lo zampino dei grandi marchi editoriali: in effetti i vincitori erano portati in palmo di mano dalle major della cultura del tempo…e di oggi (Einaudi, Feltrinelli, Mondadori ecc.).

Come molti altri grandi-piccoli poeti ha subito una triste sorte; un sorte davvero inspiegabile se si considera lo spessore di opere come Lettere della sposa demente, su cui l’illustre critico Emilio Cecchi ebbe ad esprimersi con parole così intense:

«Come una lunga straziante elegia, tutto il poemetto, con sobria e trasparente emozione, si distende lungo un infinito colore grigio: come di una pioggia perpetua che cada sulle tombe dimenticate, sui ricordi che straziano, sulle illusioni e sui cari fantasmi che lanciano il loro addio alla vita… Ogni verso è una fuga e una melodia, soffuse di una irripetibile grazia malinconica»;

o la lirica Il mattutino delle tenebre, a proposito della quale il crepuscolare Corrado Govoni colse l’occasione per fare mea culpa giacché a tempo debito non si era accorto della bellezza – «è una poesia meravigliosa» – escludendola dalla antologia, da San Francesco ai poeti d’oggi, nella quale le avrebbe riservato il posto d’onore. Per non parlare dei giudizi favorevoli espressi dal filosofo esistenzialista Jean Paul Sartre – con cui Piazzolla entrò in polemica – e dal letterato André Gide.

Misticismo, orfismo, crepuscolarismo, assieme ad una pacata vena ironica e sarcastica, si fondono nella sua opera poetica dietro cui si colloca un complesso background culturale, che si dipana lungo i sentieri tracciati da «esperienze mistiche, filosofiche, esoteriche di una larga fascia di letteratura orientale ed europea» (M. Dell’Aquila) in cui forte è l’incidenza dei grandi della nostra letteratura, da Petrarca a Leopardi, sino ai maggiori poeti della letteratura novecentesca.

Spirito poliedrico e di carattere antiaccademico, Piazzolla fu essenzialmente un solitario, caratteristica questa che gli permise tuttavia di scandagliare nel profondo la propria anima accumulando motivi di riflessione autobiografica e ragioni culturali, che seppe riversare sagacemente nei suoi libri.

Ebbe contatti con Vincenzo Cardarelli, che gli affidò una rubrica di critica poetica sulla rivista La fiera letteraria. Quella con Cardarelli fu una lunga amicizia che si concluse tuttavia in segno negativo, tanto che Piazzolla intervistato nel 1977 espresse un giudizio davvero aspro nei confronti del poeta di Distesa Estate; probabilmente il suo era solo rancore. In effetti, il rapporto d’amicizia con «il vate di Tarquinia» – così sarcasticamente definito da Piazzolla nell’intervista del ‘77 – si incrinò per via del mancato interessamento di Cardarelli a favore della pubblicazione di una silloge di Piazzolla presso Mondadori; che, se fosse andata in porto, avrebbe certamente garantito al poeta sanferdinandese una fortuna maggiore.

Un altro grande del nostro Parnaso letterario che contribuì ad intralciare il percorso del Nostro verso successi di maggior rilievo, fu Giuseppe Ungaretti, del quale, nell’articolo “La cultura che ha fallito” (1977), Piazzolla volle ricordare a sfregio il “camaleontismo politico”. Ungaretti, infatti, a causa di un articolo di Piazzolla apparso su La Fiera letteraria, in cui il Nostro riferiva che André Gide ebbe ironicamente a definire l’autore di Soldati e Allegria di naufraghi «modesto suonatore di flauto, epigono di Apollinaire e Valéry», fece cadere in qualità di membro della Giuria del Premio Viareggio l’assegnazione del premio per la poesia a Piazzolla, nonostante gli altri componenti della giuria propendessero tutti per quest’ultimo.

Al di là di questi che sono meri pettegolezzi letterari, quel che preme riscoprire è il valore della poesia di Marino Piazzolla, una poesia di indubbio spessore artistico che, per il critico Giacinto Spagnoletti, andrebbe rivendicata all’attenzione della critica, in virtù anche delle testimonianze di prim’ordine che Piazzolla ebbe in vita, da Sbàrbaro a Luzi, da Sartre a Betocchi e a Cecchi; di cui si è ricordato il giudizio appassionato. Stando al critico tarantino Spagnoletti, l’opera di Piazzolla su cui la critica dovrebbe maggiormente soffermarsi è la silloge Lo strappo (1984): forse la raccolta in cui è possibile cogliere in misura maggiore la profondità della sua voce: «Una voce poetica […] permeata da un senso di casta solitudine, di abbandono ai propri fantasmi, di fiducia nell’eterno, assai distante dal fraseggio quotidiano». Quella del colloquio con i propri fantasmi è una consuetudine per Piazzolla, ed è del resto in queste occasioni che l’afflato lirico di Piazzolla si mostra in tutta la sua pienezza:

«Ora ti vedo meglio: / sei una vela scesa a precipizio / nel vuoto rimasto in me / perché sia musica l’assenza; / il tuo viaggio fino all’infinito / uno strappo; la candela spenta / tu stessa bianca…».

Per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di Marino Piazzolla: il suo ricordo e la sua opera sono custoditi dalla Fondazione Marino Piazzolla, che sul proprio sito internet ha messo a disposizione una ricca antologia e un approfondito apparato critico sul poeta pugliese.

In libreria, invece, è possibile reperire il volume “Le mie teorie eretiche. Conversazioni a Radio France Culture” uscito recentemente per le edizioni Fermenti di Roma. Vi si parla di filosofia, poesia, arte, letteratura, opere appartenenti all’umanità e all’interiorità di personaggi da riproporre: “L’industria culturale può fare molto per imprimere un cambiamento al nostro modo di pensare…” “…l’effimero è ciò che è destinato a corrompersi, a sparire, costituendo di per sé l’inessenziale…”.

*”Le mie teorie eretiche. Conversazioni a Radio France Culture” di Marino Piazzolla (Fermenti, pagg. 126, euro 15)

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Giuseppe Balducci

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