Libri. “L’Ultima del Diavolo” di Buttafuoco: “noi”, l’Islam e il monaco Bahira

ultima del diavolo buttafuocoL’Ultima del Diavolo di Pietrangelo Buttafuoco è un libro inquietante. Come una nottata di bagordi passata in compagnia del principe delle tenebre. Come ritrovare tra le pagine stampate nel 2008 nomi prima tambureggiati incessantemente e che ormai non pronuncia più nessuno, quello dell’ex ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz. Come (ri)scoprire che il Mediterraneo è un lago e che dall’altra parte, nel lato (presunto) oscuro del Mare Nostrum, esiste una cultura che non sarebbe poi davvero così distante dalla nostra come da anni continuano a raccontarci. E che, anzi, tra noi e “loro” c’è un ponte – santissimo – nella figura mitica e leggendaria del monaco Bahira. Ma Bahira deve morire perché il demonio, incarnatosi nei panni dello scrittore dantista americano Nick McPharpharel, ha deciso che tra cristiani e musulmani debba esistere l’odio reciproco.

Il romanzo musulmano di Buttafuoco ruota attorno alla figura del cardinale Taddeo Reda di Giugliano, “napoletano cosmopolita” e cardinale, quindi principe, della Chiesa Cattolica. Disincantato e cinico, dotato di un’ironia feroce e di una cultura sterminata, non ci mette poi molto a firmare il contratto con il diavolo. Determinato e sfuggente, travestito come Dan Brown, il demonio gli ha appena offerto dodici milioni di dollari – da versare in favore dell’episcopato più povero in seno a Santa Romana Chiesa – in cambio di un piccolissimo e trascurabile favore: trovare e distruggere ogni traccia della canonizzazione di Bahira, monaco nestoriano vissuto quasi mille anni fa, sulle cui orme c’è il pope ortodosso Pavel fermamente intenzionato a trascinare il santo siriaco sugli altari ortodossi. Bahira, nella successione del calendario, non c’è. Non lo trova manco il dottissimo cardinale. Ma va eliminato lo stesso, occorre dargli il colpo di grazia. Perché Bahira, che diventa il vero protagonista del romanzo, ha un “torto” imperdonabile per McPharpharel: è stato lui a riconoscere per primo i segni del Divino nel giovanissimo Maometto. Perciò riconoscere la santità del monaco significherebbe ammettere l’iniziazione cristiana dell’Islam e, quindi, lo strettissimo legame di parentela che legherebbe Vangelo e Corano.

La vicenda si snoda come un viaggio nel mondo e tra i mondi: dall’orgoglio yankee di New York fino alla contrizione nel deserto siriano passando per Roma lasciva e tentatrice, i sabba mondani consumati nella divina costiera amalfiitana e la poderosa umiltà della cattedrale di San Nicola a Bari; gite tra la terra e l’inferno, scampagnate tra sogno e realtà, immersioni nell’agiografia islamica e prosaiche emersioni tra atti notarili, gioventù bruciate nell’esperienza umana della Parigi sessantottina e infanzie tradite nelle scuole dell’Italia ingenua del bianco e nero degli anni ’50. A bordo di aerei, navi, e scintillanti fuoriserie che si parcheggiano in cielo mentre i diavolacci fanno tintinnare, come vile moneta, le anime perdute. Il tessuto narrativo è seducente e viaggia labile tra le dimensioni. La scrittura è barocca e non ammette vie di mezzo: o si ama o si odia. Alcuni personaggi, come il diavolaccio Rosto Sfricchio e la seducentissima dona Sabela Saraivas, appaiono quasi di second’ordine ma risultano determinanti nell’evoluzione dei fatti. Altri, come il pope Pavel, non parlano nè compaiono mai direttamente sulla scena. Personaggioni come George W. Bush e ancor di più Giovanni Paolo II si stingono a macchiette dell’esprit du temps. A far da contrasto ai grandi della storia, passeggeri, i lasciti dell’immensa tradizione religiosa e culturale islamica. Così lontana eppure così vicina alla cultura cattolica e a quella ortodossa. Storie, miti e leggende tra Bisanzio, sultanati e i deserti popolati dai misteriosi jinn. Un contrasto stridente che rende il libro inattuale e, perciò, non soggetto all’obsolescenza.

Tutti, grandi e piccoli, anime perse e principi, risultano – per quanto protagonisti o marginali – dei nani in confronto all’unico protagonista del romanzo che è, per l’appunto, il monaco Bahira. La cui figura è ancora oggi cardine dell’Islam mentre il cristianesimo ne ha lentamente sbriciolato vita e leggende trasfondendone l’eredità in altre figure agiografiche, mantenendone il culto nelle icone a cui, a volte, è stato imposto un nome diverso. Bahira è dunque il ponte del Mediterraneo: unisce cristiani e musulmani in un’unica tradizione, richiamando e avvalorando gli ammonimenti millenaristici che attraversarono il Medio Oriente sfociando anche nell’Europa dell’altissimo Medioevo sul “profeta che verrà tra gli Arabi”. Quello stesso Medioevo in cui religione e morte permeavano tutta la percezione del reale e non erano ancora favole per beghine. Epoca “oscura” in cui fiorivano le dispute teologiche mentre i popoli accoglievano in sè il sacro facendo, spesso, infuriare vescovi e cardinali. Come riportano alcuni storici tra cui Johann Huizinga (l’olandese che ebbe il coraggio, inosato, di definire una volta per tutte il Rinascimento come l’autunno del Medioevo), le gerarchie ecclesiastiche, politiche e culturali dovettero porre un freno alla trasformazione, elaborazione e “popolarizzazione” delle figure di santi, madonne ed eroi a cui si finirono per attribuire persino vestiti alla moda del tempo. I processi di metabolizzazione, fusione e costruzione del mito ieratico di alcune figure finì per scomporre e unire aspetti dell’una o dell’altra icona. Cosa che accadde anche a Bahira che si scisse,come racconta Buttafuoco, in mille e un santo cattolico.

L’Ultima del Diavolo dimostra, oggi, come non potrebbe esserci più distanza tra due delle tre grandi religioni rivelate. Distanza incolmabile dal momento in cui anche i Paesi mediterranei hanno scelto di intraprendere la via del passaggio a nord-ovest abbracciando, acriticamente, dogmi e posizioni derivate dal liberalismo protestante di matrice anglosassone. E perciò ci ritroviamo con la Fallaci eroina di una destra d’importazione Usa che nulla, in teoria e in pratica, avrebbe da condividere con le seppur multiformi manifestazioni di quella italiana. Ma tant’è e gli effetti sono quelli che sono. Perciò ci ritroviamo con chi da un lato vorrebbe irrigare di plutonio il vicino Oriente e passare a fil di spada le periferie e dall’altro chi sbianca la sua coscienza propugnando l’accoglienza e la comprensione di tutti, partendo dalle elaborazioni malcelate del mito del buon selvaggio di Rousseau. Si litiga, in buona sostanza, condividendo lo stesso presupposto della propria (presunta) superiorità culturale. Sulla base della quale si mischiano, senza nessun criterio, l’immigrato e lo sfruttatore, il delinquente e il padre di famiglia, l’imam pazzo e quello generoso, il vigliacco bestemmiatore che crede di far la crociata sparando sui vecchietti e la guida turistica che ha salvato trenta persone al museo del Bardo. Uno zibaldone di feroci e pericolose semplificazioni e luoghi comuni nel nome della demonizzazione dell’Islam, cultura pretesa inferiore. Che non si deve comprendere né analizzare. Con cui nulla bisogna avere a che fare e perciò Bahira deve “morire”. Nessuno, giurano insieme a McPharpharel, ne piangerà la scomparsa.

*L’Ultima del Diavolo di Pietrangelo Buttafuoco, pp. 262, Mondadori

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Giovanni Vasso

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