Il tempo lineare, caratteristico della modernità, ha esso stesso ceduto posto a un tempo dislocato che, rendendo impossibile la messa in opera delle «virtù del lungo termine», minaccia la capacità delle persone di dar forma al loro carattere e senso alla loro esistenza. L’accelerazione sociale e l’ascesa dell’insignificanza sono uno dei tratti principali del turbo-capitalismo, allo stesso titolo della fabbricazione dell’obsolescenza e della generalizzazione del credito.
L’attualità si concentra sui grandi avvenimenti emozionali (la morte di Lady Diana, la liberazione di Íngrid Betancourt), trattando in stile lacrimale tutti i drammi del pianeta. Il minimo incidente della vita quotidiana (una tempesta, un treno bloccato, un incidente d’autobus, una violenza scolastica, ecc.) è pretesto per il dilagare di «cellule di sostegno psicologico» che permettano agli «attori interessati» di non cedere alla «depressione», di «elaborare il loro lutto» e di «ricostruirsi» nel più breve tempo possibile «compiendo gesti forti» – in un’ottica di «dialogo» e «condivisione civica», beninteso .
La parola d’ordine generale è quella della compassione. È il punto di partenza della riflessione di Myriam Revault d’Allonnes, già citata: «La nostra società è tutta presa dalla compassione. Uno “zelo compassionevole” nei confronti dei poveri, dei diseredati, degli esclusi si manifesta continuamente nelle espressioni rivolte al popolo sofferente. Al punto che nessun responsabile politico, qualunque sia la sua sponda, sembra esimersene, almeno nella sua retorica».
E la televisione, sempre tra due programmi di pubblicità menzognere (lo sono tutte), prosegue la sua impresa di istupidimento e infantilizzazione programmata, sotto la direzione di presentatori tanto spregevoli quanto chiassosi e pretenziosi, volgari e pieni di sé.
Per non essere da meno nell’ipocrisia dominante, tutte le grandi società si dotano di «codici di condotta etica» la cui comicità involontaria rivaleggia con la stupidità. Ne abbiamo avuto diversi sotto gli occhi. Gli impiegati si vedono invitati ad adottare un «comportamento etico» in tutte le circostanze che comprendono ovviamente il rispetto dei diritti dell’uomo, l’osservanza scrupolosa delle regole di riservatezza, l’impegno a stare lontani dai «conflitti di interesse», il rifiuto delle bustarelle e dei regali, ma anche l’adesione a una «politica di segnalazioni» (detto chiaramente: la delazione presso la gerarchia dei capetti di ogni comportamento che non va nella giusta direzione).
Niente riassume meglio questa evoluzione quanto quella dello statuto attribuito all’omosessualità. Se cinquanta anni fa l’«apologia dell’omosessualità» era punibile a termini di legge, oggi è l’«omofobia» che può essere oggetto di una sanzione penale, a tal punto che ormai nelle scuole si organizzano campagne tendenti a «sensibilizzare i bambini all’omofobia» (sul tema: «Abbiamo tutti il diritto di amare»). Qualunque sia l’opinione che si può avere sull’omosessualità, l’accostamento di questi due fatti ha qualcosa di sbalorditivo. Mezzo secolo fa, l’omosessualità era abbastanza ridicolmente presentata come «vergognosa» o «anormale», oggi è divenuta così ammirevole che è vietato dire che non la si apprezza. In entrambi i casi, è la libertà a non trarne profitto.
L’evoluzione del linguaggio è a questo riguardo significativa. Ormai si preferisce parlare di «fratture sociali», tutto sommato fortuite tanto quanto le fratture della tibia, piuttosto che di conflitti sociali o di lotta di classe. Non ci sono più sfruttati, la cui alienazione rinvia direttamente al sistema capitalista, ma «diseredati», «esclusi», «sfavoriti», «poveri», tutti ugualmente vittime di «handicap» o «discriminazioni», tutti ugualmente esortati a fronteggiare le loro difficoltà adottando le ricette dispensate dallo Stato terapeutico. È allo stesso modo significativo che la nozione di «lotta contro l’esclusione» abbia sostituito quella di «lotta contro le disuguaglianze», in vigore negli anni Settanta, che evocava ancora la lotta di classe. Beninteso, la povertà e la miseria prosperano su questo humus di angelismo umanitario. Si vuole essere «solidali» senza più sapere cosa realmente significhi la solidarietà, ossia in primo luogo l’interiorizzazione del legame sociale. Più in generale, per una sinistra ormai separata dal popolo, il societario è un modo per dimenticare (e far dimenticare) il sociale.
Il problema è che oggi, nel clima compassionevole alimentato nell’impero del Bene, tutti vogliono essere vittime, termine che partecipa anch’esso della stessa confusione mistificatrice, dello stesso garbuglio interclassista (è più alla moda essere una «vittima» che essere un proletario o un lavoratore sfruttato dal proprio datore di lavoro). Già Machiavelli rimproverava alla religione cristiana di essere più portata a chiedere ai suoi fedeli di essere idonei alla sofferenza che a «forti azioni». Poiché l’individuo sofferente ha preso il posto dell’individuo che agisce, la vittima diventa il vero eroe del nostro tempo.
Ci fu un’epoca in cui il papà e la mamma cercavano bene o male di vivere insieme senza interrogarsi oltremisura sui «problemi di coppia», in cui i bambini giocavano completamente nudi nel giardino senza che ci si chiedesse se ciò non avrebbe eccitato gli orchi cattivi, mentre il nonno fumava la pipa senza che si brandissero davanti a lui statistiche accusatrici sul fumo passivo. Quest’epoca è passata. Oggi siamo arrivati a cancellare le sigarette che si vedono nelle fotografie di Serge Gainsbourg, di André Malroux e del generale de Gaulle. Churchill, come si sa, era un non fumatore e Shakespeare non ha mai scritto Il mercante di Venezia. Come durante il periodo sovietico, si ritoccano le foto e si riscrive la storia.
(continua)
“I demoni del Bene”, Alain de Benoist. Edizioni Controcorrente. Euro 20