Idropolitica. Dagli Usa alla Russia: nuovi equilibri/conflitti sulle vie dell’acqua

Un giacimento scoperto dai russi nel Mar Artico
Un giacimento scoperto dai russi nel Mar Artico

Centinaia di film catastrofici su invasioni aliene, piogge di meteoriti, terremoti epocali, api assassine, persino l’improbabile invasione delle forze comuniste di Alba Rossa – ma nessuno ancora aveva previsto la fine della California per siccità. Non è uno scherzo: già da gennaio era partita una pesante campagna di informazione per risparmiare acqua. I consumi però si sono ridotti solo del 3% e così il Governatore Brown ha dichiarato lo stato di emergenza siccità e a fine marzo ha disposto interventi per 1 miliardo di dollari, una cifra senza precedenti. 
La situazione non è critica solo in California; la Columbia University ha stilato una lista delle dieci aree del paese a serio rischio siccità: vi sono incluse buona parte del granaio d’America (Nord e Sud Dakota, Nebraska, Minnesota, Arkansas, Ohio, Texas del Nord) e le aree metropolitane di New York, Washington D.C., Los Angeles-San Diego-Santa Barbara.

Gli Stati Uniti normalmente attingono l’acqua potabile per case e campi in egual misura dall’acqua di superficie (precipitazioni, fiumi, laghi, ghiacciai/nevai) e dall’acqua presente nelle falde acquifere. Ma le precipitazioni continuano a diminuire e così anche i ghiacciai e i fiumi e di conseguenza sta aumentando vertiginosamente anche il ricorso alle falde, il cui utilizzo da parte dei privati proprietari del terreno sotto il quale si trovano non è disciplinato da alcuna legge. Senza contare che le falde più profonde una volta svuotate non si riempiono nuovamente e anzi provocano lo sprofondamento dei terreni sovrastanti.

 Si consideri poi l’aumento demografico e dei bisogni: negli ultimi cinquant’anni gli abitanti degli Stati Uniti sono raddoppiati e il consumo di acqua procapite è più che raddoppiato. Quindi una richiesta complessiva di quattro/cinque volte superiore rispetto a due generazioni fa accoppiata a una diminuzione delle precipitazioni. Il risultato? Solo il bacino del fiume Colorado – quello che ha scavato il Grande Canyon – ha perso negli ultimi nove anni 65 milioni di chilometri cubi di acqua.

Come possono reagire gli Stati Uniti? Le stime dicono che per attivare e rendere efficace una nuova disciplina dell’accesso privato oggi non regolamentato alle falde occorreranno almeno 25 anni: e nel frattempo? Se l’agricultural belt rimanesse a secco, gli Stati Uniti potrebbero diventare importatori di acqua? Nel caso ci si potrebbe rivolgere al vicino Canada, una delle “superpotenze” mondiali dell’acqua assieme a Brasile, Colombia, Cina (Tibet), Mongolia, Indonesia e Russia. Ma il costo sarebbe altissimo e porterebbe a ridisegnare gli equilibri politici con il paese della foglia d’acero.

London is drowning and I live by the river, cantavano i Clash: oggi ad allagarsi è New York, dove tutti abitano vicino all’oceano. Se negli States infatti sta diminuendo l’acqua dolce, sta però aumentando l’acqua di mare: l’uragano Sandy che ha di recente colpito la costa est è difatti secondo gli esperti, solo l’inizio di una nuova era climatica per il Nord America. I tropici si muovono verso nord e gli uragani per le città più popolose come Philadelphia, New York o addirittura Boston, diventeranno sempre più frequenti e devastanti. L’indiziato numero uno? Ovviamente il riscaldamento globale, di cui proprio gli Stati Uniti, oltre che i primi responsabili, finirebbero per diventare le peggiori vittime.

Oltre agli uragani, infatti, le coste del Nord America saranno le più colpite dall’innalzamento del livello dei mari. Non solo perché l’Antartide sta riversando nell’oceano più acqua del previsto; il diminuire della massa del continente antartico causata dall’accelerato scioglimento dei ghiacci sta provocando infatti una modifica dell’attrazione gravitazionale che lo stesso continente esercita sulle acque circostanti, che si ridistribuiscono abbassandosi presso i poli e alzandosi, per una serie di coincidenze, proprio nel nord Atlantico, ovvero sulle coste di Europa e East coast americana. Al punto che già diverse società immobiliari statunitensi stanno fornendo rating negativi ai quartieri che correranno più rischi di essere sommersi entro il prossimo secolo.

Se il Polo Sud è lontano da tutto e tutti, eppure importante per tutti e dappertutto, il Polo Nord sembra invece sempre più vicino a tutti. L’Artico è il nuovo centro di numerosi e forti interessi che aumenteranno fino a renderlo, secondo qualcuno, la questione geopolitica del XXI secolo. 
Anzitutto ci sono le rivendicazioni sui ricchi fondali: a chiedere la propria parte sono Canada, Stati Uniti (Alaska), Russia, Norvegia, Islanda e Danimarca (Groenlandia). Norvegia, Danimarca e Islanda sono più caute e, forse, patiscono la propria debolezza internazionale – il che non ha impedito però al governo di Copenhagen di spendere negli ultimi anni circa 50 milioni di euro in ricerche e documentazioni geologiche da allegare alla richiesta inoltrata alla competente commissione ONU per riconoscere l’allargamento della piattaforma continentale groenlandese e quindi ottenere la sovranità su un’area sottomarina di quasi 900.000 kmq. Potenzialmente ricchissima di petrolio.

Nuovi conflitti nel mare Artico?

Le stime dicono che tra il 15 e il 30% delle riserve di carburanti fossili non ancora scoperte si troverebbero proprio sotto i fondali del circolo polare artico. È anche per questo che le rivendicazioni si stanno facendo energiche tra due nazioni che ne fanno – anche – una questione di orgoglio e prestigio internazionale: da una parte la muscolare Russia: il presidente Putin sta riarmando la flotta dell’Artico, ha riaperto delle basi siberiane e si dice abbia ordinato un nuovo sottomarino nucleare per pattugliare il Polo Nord. Ma non basta: nel 2007 la missione Artika ha piantato una bandiera russa in titanio a 4.600 metri di profondità sotto il ghiaccio in prossimità del Polo Nord. Come si faceva un tempo per reclamare la proprietà di una terra.

 Fatto che ha molto indispettito il Canada, altro contendente sul tavolo, che ha rivendicazioni economiche, ma anche nazionalistiche, sull’Artico. Il primo ministro canadese Harper ogni estate visita gli inuit “canadesi” dell’artico e sta finanziando un tentativo di colonizzazione dei ghiacci da parte dei suoi connazionali. Oltre a spendere tempo e denaro pubblici per ritrovare i resti della spedizione di Sir John Franklin, i cui partecipanti morirono durante la ricerca del famigerato passaggio a Nord-ovest.

Certo però queste iniziative non sarebbero sufficienti da sole ad arginare l’attenzione  russa sull’area: perciò il Canada sta lavorando anche a un progetto di riqualificazione della propria flotta per contro-presidiare l’artico. Un progetto che è stato anche di recente oggetto di spionaggi e tradimenti à-la-Snowden commissionati probabilmente da una nazione che è, a sorpresa, molto interessata a quello che accadrà dentro il circolo polare artico nel prossimo secolo.

Stiamo parlando della ormai onnipresente Cina, la quale è interessata nelle risorse del sottosuolo artico, ma soprattutto nelle implicazioni che proprio lo scioglimento dei ghiacci avranno sui trasporti globali. 
Le stime infatti rivelano che probabilmente dal 2035 in poi, ogni estate, il Mar Glaciale Artico sarebbe attraversabile e dal 2070/90 diventerebbe quasi stabilmente un mare, senza quasi piattaforma di ghiaccio. Controllare gli stretti e quel “passaggio a nord-ovest” di cui i canadesi rivendicano la paternità permetterebbe di collegare l’Asia pacifica (Cina, Corea, Giappone) – all’America atlantica e all’Europa in modo più rapido e senza dover passare da sud est asiatico e Africa: il Polo Nord sarebbe il nuovo canale di Suez, o il nuovo canale di Panama. Ma come può accampare pretese la Cina sul Polo Nord? In nessun modo, in teoria; ma se vi dicessimo che è ormai certo che il governo di Nuuk, Groenlandia, otterrà l’indipendenza politica ed economica dalla madrepatria danese e che, di recente, sono fortemente aumentati gli investimenti cinesi in terra groenlandese?

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Andrea Tremaglia

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