L’intervista. De Angelis: “Salvini, la destra e le rovine. Si riparta da etica e nazione”

Marcello De Angelis in un intervento televisivo da direttore del Secolo d’Italia

È uno sporco lavoro ma qualcuno dovrà pur farlo. Brancolare tra le rovine della Destra ridotta all’anno zero, che – come spietatamente dimostra la migliore maestra di vita che ci sia, ossia la Storia – vivacchia e segna il passo fermandosi a glorificarsi l’ombelico in revival folkloristici. Eventualmente da rinnegare alla bisogna. L’ultima frontiera, con il caso Aveta (l’ex missino pellegrino con selfie a Predappio che ora si candida in coalizione Pd in Campania e che a onor del vero è solo l’ultimo di una lunghissima serie che resta più o meno sommersa nel mare magnum delle cronache locali) è stata superata.

Per capire cosa stia accadendo, abbiamo fatto intervistato Marcello de Angelis, ex direttore del Secolo d’Italia e di Area, già parlamentare e protagonista musicale sulla scena alternativa con i 270bis, oltre che mente, voce e penna storica della destra non conformista italiana.

Dobbiamo rassegnarci al fatto che la cultura di destra sia ridotta al folclore delle gitarelle sulla collina romagnola?

Se stiamo facendo riferimento al neo-fascismo c’è sicuramente sempre stato molto folclore. Ma il fascismo e la destra sono due cose totalmente distinte… Di cosa stiamo parlando?

Diciamo della Destra come la intendiamo oggi…

Purtroppo anche qui si è lasciato molto più spazio alle espressioni formali che alla sostanza. D’altronde ormai “destra” è diventato un brand, manco fosse Lacoste. Per chiarezza non mi sto riferendo al partito di Storace, ma a tutti quelli che hanno indossato e indossano la definizione “di destra” come se fosse una cravatta o una borsa di Vuitton… Insomma, una parola che è solo un significante senza significato. Se “destra” non significa niente e non ha purtroppo oggi alcuna riconoscibilità è anche colpa dei suoi rappresentanti e di chi ha occupato – anche abusivamente – il suo spazio politico e culturale. D’altro canto Indro Montanelli l’aveva già detto che dopo il passaggio di Berlusconi della destra in Italia non sarebbe rimasta traccia.

L’esperienza della destra di governo ha finito per affondare la sua cultura?

Il discorso è più ampio. Resta ovvio che quando la destra era marginalizzata e rinchiusa in un perimetro la sua riconoscibilità era più evidente, soprattutto per chi si collocava all’interno del muro di cinta. Poi, almeno formalmente, il muro è crollato e teoricamente la Destra sarebbe dovuta essere percepibile direttamente tramite i suoi rappresentanti, che col proprio stesso comportamento avrebbero dovuto dare una manifestazione dei valori che portavano dentro.

E anche manifestarli con gli strumenti culturali: i giornali, i prodotti editoriali…

In quel contesto, a dire la verità, ci si è dovuti misurare con prodotti che avevano ben altre risorse economiche e commerciali che hanno finito per cannibalizzare lo spazio di quelli che potevano essere prodotti dalla destra. L’esempio plastico è quello della stampa quotidiana: tutti ritengono Libero e Il Giornale come le voci par exellence della destra, nessuno però considera che chi ne detta da sempre la linea editoriale non appartiene nemmeno lontanamente ad una storia o cultura di destra. Quindi alla fine i rappresentanti della destra, per avere visibilità e spazio, si sono fatti dettare la linea da chi non era di destra e via via si sono adeguati ad un altro linguaggio e si sono uniformati ad una identità che non era la loro. Purtroppo dobbiamo dire che ci sono anche molti che hanno fatto la stessa cosa con la stampa di sinistra, adattandosi ai suoi gusti per risultare più gradevoli. Un suicidio culturale di massa, insomma.

Oggi e domani. C’è (ancora) vita su Marte?

Soluzioni facili e a portata di mano non ne vedo. Personalmente non ritengo che possa essere una strada percorribile quella di rimettere l’orologio indietro e fare finta che non sia cambiato niente. Tanti anni fa, persino per gli avversari, quando si diceva “un uomo di destra” si intendeva magari un vecchio trombone, ma sempre e senza dubbio una persona onesta e per bene. Gli ultimi vent’anni, purtroppo, hanno finito per incrinare la possibilità di identificare la destra con i concetti di onestà e con la visione etica della vita che impone di metter prima della propria carriera e della propria visibilità l’interesse della nazione e del popolo. Senza nazione e senza etica, non esiste la destra.

È opportuno lavorare a officine culturali, oggi, di destra?

Un libro, un film, una canzone, sono il prodotto coerente di una cultura se sono l’espressione sincera di principi che l’autore ha dentro di sé. Ma piegarsi a dire ciò che conviene, solo per occupare uno spazio, non va bene. Finisci per abbassare il livello della stessa manifestazione culturale quando sei costretto a parlare non più alle teste ma agli stomaci e per ottenere il consenso.

Il padano Matteo Salvini a capo della destra italiana, allora, è un bel cortocircuito culturale…

Se parliamo di cultura di destra, Salvini non rientra nell’argomento. Con la Destra non ha mai avuto, o voluto, niente a cui spartire. Si presentò alle votazioni per il “Parlamento del Nord” a capo della lista dei Comunisti Padani. Esiste un serio problema, invece, quando il dibattito si semplifica e imbarbarisce giungendo al punto in cui si è di destra o sinistra a seconda di come la si pensi sugli sbarchi dei profughi. Sei contro gli immigrati? Sei di destra. Vuoi tanti sbarchi? Sei di sinistra. Ecco, se dovessimo rassegnarci a queste schematizzazioni sarebbe una cosa d’una infinita tristezza. Perché significherebbe cancellare, d’un tratto, non solo sessant’anni di storia politica italiana, ma anche qualche secolo di storia del pensiero europeo.

Destra, in Italia, ha un sapore ondivago e un significato che non è mai definito. Perché?

Da un lato perchè, dopo la guerra, s’è identificato “destra” col fascismo che, come tutti sappiamo, è dottrina, ideologia e cultura non identificabile con i termini degli schieramenti parlamentari. Come diceva Accame, “di destra” era diventato una sorta di eufemismo che sostituiva fascista, come non-udente per non dire sordo. E poi, in Italia, abbiamo avuto l’anomalia politica del Centro, che non è l’espressione dell’anima cattolica e
popolare, ma l’occupazione strategica del posto centrale nello schieramento politico nazionale. Col centro tutti hanno dovuto scendere a patti, facendo nascere – dopo il ’92 – quell’altra anomalia che sono quelle strane alleanze chiamate centrodestra e centrosinistra. In qualunque altra nazione in cui la politica è condizionata dalla logica parlamentare invece esistono semplicemente una destra e una sinistra.

L’orizzonte è oscuro ma da qualcosa, la destra, dovrà pur ripartire…

…sempre che ci interessi ancora il termine “destra”. Ammesso e non concesso che sia così, la prima consegna sarebbe quella di ristabilire il perimetro che la renda riconoscibile. Teniamo però presente però che dal ’92 in poi tutte le forze che hanno voluto presentarsi come una novità politica, dalla Lega Nord, all’Italia dei Valori, ai 5stelle, hanno dichiarato di non essere né di destra, né di sinistra. In fin dei conti anche Forza Italia, che finì per caratterizzarsi come “alternativa alla sinistra” e ancora si agita nel tentativo di trovare per sé definizioni improbabili (tipo “moderati”) per porsi fuori da quegli schemi. La destra italiana ha un problema di “ricerca della propria identità” che è al limite dello psichiatrico, perché l’identità non è in una parola, ma cammina sulle nostre gambe, non ci abbandona mai, è l’esempio che sappiamo dare quotidianamente. La cultura di destra, come la intendiamo noi e forse solo noi, è un modo di vivere che forgia l’anima. Ma l’anima è invisibile. Non si esprime in un programma elettorale ma nel volto di chi sappia incarnare l’idea nella vita di tutti i giorni. Il libro, il film, vengono dopo. È l’esempio che deve fare la differenza. Insieme a due concetti, quelli di libertà e di nazione, che sono i due binari senza i quali non si può definire una cultura che sia autenticamente di destra… Ma il discorso non si può concludere nello spazio breve di un’intervista. Ci aggiorniamo alla prossima puntata?

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Giovanni Vasso

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