Milano. “La Nemica” di Giorgio Bianchi: lunedì 8 per “Il grigioverde in bianco e nero”

nemica_elisa_cegani_giorgio_bianchi_011_jpg_jrujUn secolo fa, in giugno, il Regno d’Italia era appena entrato in guerra contro l’Impero di Austria-Ungheria. Ma gli obiettivi dichiarati, Trento e Trieste, restavano lontani dalla linea del fronte. Anzi, già all’alba del 24 maggio, tra la costa della Romagna e quella della Puglia, i bombardamenti navali nemici avevano fatto 63 morti. Eppure era il Regno d’Italia ad avere cominciato il conflitto, quindi ci si sarebbe attesi che, a venir bombardato, fosse il litorale tra Trieste e Zara.

Scopo dell’entrata in guerra dell’Italia era, innanzitutto, quello di essere belligerante quando l’atteso trionfo russo avesse debellato gli austro-tedeschi. Invece furono i tedeschi a sconfiggere i russi. A questo punto la lunghezza del conflitto smetteva di essere prevedibile in mesi. Seppure inferiore per armamenti e uomini, lo schieramento austro-ungarico sul fronte italiano teneva. Dal 1882 al 1914 il Regno d’Italia era stato addirittura alleato dell’Austria-Ungheria e della Germania. Soprattutto della seconda, anche perché Roma e Berlino aveva diverse zone d’influenza. Con Vienna permanevano rivalità militari nell’Adriatico e commerciali nei Balcani. Allora perché l’Italia era entrata nelle Duplice Alleanza, con lei diventata Triplice? Erano state soprattutto le pressioni britanniche a imporre l’avvicinamento tra Roma e Vienna. Sovrappopolata, malnutrita, l’Italia non poteva rifiutarsi, salvo restare isolata, quindi in balia di una Francia che, dopo la sconfitta del 1870, cercava rivincite ovunque potesse.

Dopo l’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914), nel momento in cui Londra si opponeva a Berlino e dunque a Vienna, Roma non aveva scelta. Non solo la Gran Bretagna aveva determinato nel 1860 la fine del Regno delle Due Sicilie e l’estensione all’intera penisola del Regno d’Italia; non solo la Gran Bretagna dominava il Mediterraneo, ma dal suo territorio e da quello del suo Impero l’Italia riceveva due terzi delle sue importazioni. Quasi tutto il resto veniva dalla Francia e dal suo Impero. Quindi un’Italia ancora poco industrializzata, con un alfabetismo esiguo e una miseria paragonabile solo a quella della Grecia, della Spagna, del Portogallo (paragoni tuttora ricorrenti), non aveva altra scelta che porsi nella scia della Triplice Intesa.

Per la sua centralità geografica in Europa e nel Mar Mediterraneo, l’Italia non poteva – come invece Grecia, Spagna e Portogallo – restare ai margini di un conflitto tra le grandi potenze. Se fosse rimasta neutrale più a lungo, l’Italia avrebbe rischiato l’invasione da parte di uno dei belligeranti, come era successo nel 1914 al Belgio e al Lussemburgo, e comunque – a guerra finita – avrebbe subìto la vendetta delle potenze vincitrici, quali che esse fossero. Nello stesso tempo, per oltre trent’anni, l’Italia aveva preparato piani di guerra alla Francia. Convertirli in piani di guerra all’Austria, in pochi mesi del 1915, non fu semplice. Fu necessaria la morte, forse non naturale, del generale Alberto Pollio, comandante dell’esercito, con Luigi Cadorna; e fu necessario rianimare l’irredentismo trentino, giuliano e dalmata, che sotto la Triplice Alleanza era rimasto monopolio dei repubblicani, appena tollerati da una monarchia peraltro largamente impopolare.

Nell’aprile 1915, dopo il patto di Londra, il denaro francese e quello inglese agevolò l’azione degli interventisti; alcuni di loro – i nazionalisti – solo un mese prima volevano sì la guerra, ma dalla parte della Germania; altri – i neo-mazziniani – vedevano negli Imperi centrali un nemico ideologico, più che strategico. I socialisti, salvo i riformisti, vedevano invece nel conflitto l’occasione per la rivoluzione che loro non avrebbero saputo fare altrimenti. Antonio Salandra, presidente del Consiglio, e Sidney Sonnino, ministro degli Esteri, pensavano invece che un conflitto – che già si sapeva sanguinosissimo dai nove mesi di guerra altrui – avrebbe sfrondato generazioni di sovversivi e sarebbe sfociato in equilibri adriatici più favorevoli all’Italia, pur nel mantenimento di un Impero asburgico, seppur ridotto di dimensioni ed escluso dall’Adriatico. Un eccesso di ottimismo. Il bagno di sangue falcerà le classi dal 1880 al 1899 e la febbre “spagnola” farà il resto. I sopravvissuti affronteranno la disoccupazione e la guerra civile del 1919-22…

Il quadro dell’inizio del XX secolo italiano si comprende male senza ricordare il maggio milanese del 1898, con le cannonate sulla folla. Il mandante della strage, re Umberto, le sconterà due anni dopo a Monza. La “vendetta proletaria” era stata possibile grazie al denaro di Marie Sophie von Wittelsbach, l’”aquiletta bavara” di Gabriele d’Annunzio. Sorella di Sissi, imperatrice d’Austria-Ungheria e vedova di Francesco II, re delle Due Sicilie, Marie Sophie non aveva dimenticato di aver perduto il Regno delle Due Sicilie per mano dei Savoia (e della Gran Bretagna). Lei avrebbe pagato il viaggio dagli Stati Uniti dell’anarchico attentatore, Gaetano Bresci… Ciò aveva anticipato l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III, che così constatò, fin dall’inizio del suo lungo potere, l’impopolarità della sua dinastia. I consensi crescenti del Partito socialista, fondato a Genova nel 1892, lo spingevano a trovare un’intesa col Vaticano, chiudendo in qualche modo l’epopea del 20 settembre 1870. Ma era chiaro ormai che il liberalismo risorgimentale stava per essere sommerso. E forse, con esso, i Savoia. Un primo tentativo di avere una vittoria militare che ne riscattasse l’immagine dopo le sconfitte di Novara, Custoza e Lissa (nel 1859 Solferino era stata una vittoria francese: la “battaglia” di San Martino era stata, in confronto, una scaramuccia), nel cinquantennale dell’Unità nazionale, con l’impresa di Libia. Ma essa volse al peggio. L’Italia di Giovanni Giolitti ne uscì acquisendo solo una frazione di litorale della Tripolitania e della Cirenaica (l’interno del Paese fu controllato solo negli anni ’30), dovendo però versare all’Impero Ottomano il gettito fiscale di queste regioni.

In Italia i diseredati, che speravano di avere terra d’oltremare, però italiana, da coltivare, ebbero invece solo una prospettiva di nuova guerra. Le operazioni militari in Libia avevano favorito lo scatenamento delle guerre balcaniche e incitato la Serbia a non cedere all’Austria-Ungheria. Gran parte degli italiani ignorava dove fossero questi Paesi. Ma lo sapevano le classi dirigenti. Solo che a dirigere era sempre meno un’aristocrazia e sempre più una borghesia di parvenus. Anche questo era, ad alto livello sociale, un episodio della lotta di classe: l’avrebbe colto bene un dramma di Dario Niccodemi, peraltro scritto nel 1916 in francese e per i francesi: La nemica. E fu un successo mondiale.

Nel 1952, mentre l’Italia cercava di riprendere il controllo di Trieste, il dramma di Niccodemi divenne un film omonimo, La nemica di Giorgio Bianchi, dove la vicenda di una grande famiglia aristocratica si trasferisce in Italia e durante la guerra cominciata nel 1915. E’ questo film – nella copia della Cineteca del Friuli – che lunedì 8 giugno (ore 18,30) verrà proiettato a palazzo Cusani di via del Carmine, sede del comando dell’esercito, nell’ambito della rassegna “Il grigioverde in bianco e nero”, ideata e condotta da Maurizio Cabona, sponsor la Elior.

Tutto accade tra il 1900 del regicidio di Umberto e il 1917 prima di Caporetto. In una famiglia ducale, dopo la morte del duca, serpeggia il risentimento della vedova (Elisa Cegani) per il figliastro (Frank Latimore), che riesce in tutto, piace a tutti e così mette in ombra il figlio di lei (Jean Verlier). Per giunta il figliastro ha ricevuto in eredità dal padre titolo nobiliare e proprietà di paludi da bonificare, che alacremente bonifica in contrasto con la matrigna, incline al latifondismo. A insidiare la già problematica vita familiare ci sono poi le oblique mene della figlia del notaio (Cosetta Greco), decisa a sottrarre il giovane duca a ogni altra donna… Ma viene la guerra e i fratellastri vanno al fronte, sul Timavo, presso Monfalcone. Nella tarda primavera 1917 solo uno dei giovani torna a casa…

Se già Piccolo alpino di Oreste Biàncoli (1940) e I cinque dell’Adamello di Pino Mercanti (1954) – inclusi in precedenza nella rassegna cinematografica – mostravano le divisioni tra neutralisti (cattolici e socialisti) e interventisti (nazionalisti, socialisti riformisti, sindacalisti rivoluzionari), qui affiora un’altra realtà: quella dell’aristocrazia solo in parte capace di guidare il Paese e quella di una borghesia decisa a spodestarla. Ma non è tutto: c’è anche – quando ancora le teorie di Freud non erano ancora merce comune – la figura della madre possessiva, castratrice, solo in parte arginata da una nonna (la formidabile Ada Dandini) realista e equilibrata. Un quadro d’ambiente, una dimensione d’epoca, che pone in maggior risalto la dignità di chi, pur avendo tutto da perdere e nulla da guadagnare, partì volontario per la guerra del 1915 anche quando non la sentiva più di tanto e, soprattutto, ne percepiva le dimensioni devastanti.

dal blog di Luciana Baldrighi su ilGiornale.it

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Luciana Baldrighi

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