Quirinale. Perché “Emma for president” è uno slogan non più al passo con i tempi grami

boninoCara Mara, non ci siamo. “L’Emma for President” è una proposta già da scaduta. E da tempo pure. La sua candidatura non entusiasma più, anzi può dare pure un po’ fastidio. Soprattutto oggi. Siamo assai lontani infatti da quel 1999, anno in cui la società demoscopica Gsw scoprì, non senza sorpresa, che il 31% degli italiani sarebbe stato disposto a votarla come presidente della repubblica. Per l’Unicab quegli italiani sarebbero stati addirittura il 58%. Ma quei numeri rappresentano soltanto un ipotetico futuro anteriore. Anche per motivi di architettura istituzione: oggi come allora il presidente della repubblica non è eletto direttamente dal popolo, ma da una clientela di parlamentari assai esclusiva. Quella suggestione tutta radicale allora piacque parecchio. Piaceva l’idea che fosse una donna rispettata in Europa a capeggiare le istituzioni. Un’opzione che assecondava quella strana esterofilia tutta italiana che fa valere più i giudizi degli stranieri che gli orientamenti della nazione.

Ma il prodotto Bonino oggi a cosa dovrebbe servirci? Dal ’99 a oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata. E non solo quella. La nostra passionaria radicale non è più il commissario che fa fare bella figura all’estero. Come donna è dovuta passare pure dall’umiliazione di essere sconfitta nel 2010, in uno scontro tutto al femminile, dalla Polverini nella corsa per la presidenza della regione Lazio. Un dettaglio non da poco visto che la Carfagna, ex ministro delle pari opportunità nel quarto governo Berlusconi, ha sottolineato il principio finto-radical della “garanzia al femminile”. É davvero questa l’emergenza attuale? Nella delicatissima situazione del momento, con l’Italia strangolata dalla crisi finanziaria e da una vacatio governativa che non ha precedenti, discutere di istituzioni-rosa è sicuramente intempestivo.

Con questo non si vuole cassare preventivamente l’ipotesi che possa essere un donna il prossimo titolare del Quirinale. Come non si può tollerare che vi sia in campo alcuna pregiudiziale di genere. Dovrà esserci un solo criterio a guidare la mano dei grandi elettori che si riuniranno nel parlamento in seduta comune: il dopo Napolitano deve essere all’altezza dello stesso Napolitiano, anche se non per forza in continuità. E’ vero, si possono avanzare grossissimi dubbi sulla sua figura, sul suo passato o anche sui contenuti delle telefonate con la Merkel e Nicola Mancino. C’è da riconoscere però un fattore: il presidente della Repubblica uscente ha saputo interpretare in maniera inedita e decisiva il ruolo del Colle. Il tutto sulla scorta di una costituzione parecchio scricchiolante. La stessa che gli ha permesso di rileggere il suo ruolo super partes in nome di un presidenzialismo (semi o totale) che ancora non è sulla carta. Un attivismo paradossale che sembra riconnettersi a quella prassi tutta augustea che metteva assieme il rispetto formale delle istituzioni con le necessità del novus ordo incipiente.

Re Giorgio, dunque. Un nomignolo che la dice lunga sul suo spessore personale. Sarà ovviamente la Storia a dirci se il suo attivismo è stato realmente in favore dell’Italia, della sua unità e delle sue prerogative, o se c’è stato dell’altro. Nei fatti però ora non si può tornare indietro. Sarebbe avvilente. Soprattutto a fronte di una legge elettorale che non ha saputo ancora fare i conti con le rappresentanze regionali di cui il Senato si fa interprete. Diciamolo pure: la figura di Napolitano sarebbe stata assolutamente relativa se avessimo avuto un quadro istituzionale più chiaro. Senza le incertezze del Prodi Bis, non avremmo avuto bisogno delle garanzie del Colle. Stessa cosa con l’esperienza di Monti, la sua prorogatio, e il doppio consiglio dei saggi di recente fondazione. Di mezzo ci sono pure quei dieci giorni in cui il governo Berlusconi, preso per mano da Napolitano, ha dovuto lasciare Palazzo Chigi in forza di una dinamica molto poco democratica.

Qualche dubbio sulla capacità della Bonino, a fronte di quanto accaduto in questi anni, c’è da avanzarlo. Anzi, è più che legittimo farlo. Il punto da sciogliere è chi gode oggi di quella medesima “auctoritas”, per dirla con un vezzo alla romana, incarnata da Napolitano? Non può esserlo di certo un Prodi, caduto ben due volte in parlamento a causa delle bizze di una maggioranza brancaleoniana. Neanche il baffo-inciucista D’Alema può pretenderlo. Men che meno il plurindagato Silvio Berlusconi. Vorremmo guardare alle donne. Ma a chi? Tra i radicali merita rispetto Rita Bernardini, non perché donna, ma per le battaglie sulle condizioni carcerarie. Guardando a destra non si può puntare certo alla Carfagna. Lei darebbe sì un profilo di bellezza alle istituzioni. Ma le mancano ancora i tempi della politica. Qui non vale solo la tempistica tutta sbagliata della proposta-Bonino, ma ancora non risulta che lei abbia compiuto i fatidici cinquant’anni…

Fernando M. Adonia

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